Subito la domanda ovvia del lettore: perché “Terra Vergine”? Nessuna analogia con “foresta vergine” detto di selva impetrabile, ma semplicemente, passi la battuta, è un angolo di territorio non lontano da Borgo Piave abitato da un centinaio di persone quasi tutte di cognome Vergine. Vieni mai? Partiamo da lontano, anzi da lontanissimo, perché la storia de Lu Sao è avvincente e noi la corriamo a grandi passi. Narra la leggenda che nel luogo oggi detto Lu Sao esisteva un bellissimo castello abitato da una regina ricchissima, che possedeva un favoloso tesoro, ben nascosto in un luogo che solo lei conosceva. Ebbene, quando la regina morì, nessuno riuscì a scovare quel tesoro che ancor'oggi, si sussurra, è sepolto in qualche anfratto e invano, nei secoli, hanno cercato di scovarlo i moltissimi cercati venuti anche da lontano. Forse è interrato, si fa per dire, nell'antichissima grotta, non lontana da lì, chiamata “forchia te la milogna”, cioè “tana del tasso”, situata sotto il livello del terreno e della quale è già stato diffuso un video con intervista a Pino e Carmelo Vergine, rintracciabile su sito dell'Ecomuseo delle Bonifiche (per vederlo vai al link https://www.youtube.com/watch?v=KC2rYBRnaFA). Fu “ufficialmente” scoperta nel 1995, già derubata di tanti reperti preistorici quali ossa di animali, punte di pietra, oggetti in osso, manufatti di ferro. Fu in seguito visitata da studiosi che spedirono a Taranto, alla sede della Sopraintendenza dei beni archeologici, varie scatole di materiali. Quindi l'apertura fu chiusa, e lo è ancor'oggi, con una solida inferriata. Si ipotizza che quella “forchia” sia stata abitata da uomini primitivi già a partire da settantamila anni fa. Veniamo a tempi più vicini a noi, se pur ancor lontani. Siamo nel 1555 e la masseria è detta Sava, che è il cognome del suo proprietario, appunto Padovano Sava, il quale molto probabilmente l'ha sviluppato dagli antichi proprietari, i monaci Celestini di Santa Croce di Lecce, che gli devono delle somme di denaro. Ebbene, nel 1555 il proprietario stila un inventario dei suoi beni, e così sappiamo per esempio che una “chiusura” (campo circondato da muro) si chiama Lo Piro, altre due sono Chesurella e Li Fillitti, due campi son detti Infierni Grandi e Infierni Piccoli... Nel 1584 la masseria figura di proprietà di Donato, figlio di Padovano. Ora veniamo più vicini a noi. Nel 1921 quel territorio, ora è chiamato Lu Sao (ma anche Lu Sau, Lu Sa e altro), passa all'Opera Nazionale Combattenti che dopo il 1935 sostituisce quel che resta della masseria, di cui oggi sono sopravvissuti il rudere del pozzo e tracce dell'”aira” dove si battevano i cereali, con due poderi dalla tipica scala esterna rotondeggiante. Nella numerazione di fine anni Trenta, quei poderi sono il 9 e il 10, assegnati appunto alla folta famiglia Vergine, originaria di San Pancrazio Salentino, paese poco dentro la provincia di Brindisi. Il capostipite è Giuseppe e sua moglie è Carmela Bracciavento. Anni dopo, il 9 sarà assegnato al figlio Carmelo, il 10 al figlio Salvatore. Verso la metà degli anni Cinquanta l'Ente Riforma affida altri due suoi poderi, edificati in quel periodo (case ad un piano) a Giovanni e Vito, sempre della stirpe Vergine. Negli anni seguenti il 1960 le famiglie si moltiplicano e vengono costruite varie abitazioni, tanto che oggi si può dire: esiste un piccolo borgo “giù” allu Sao.
Frigole non è soltanto campagna e macchia mediterranea, canali e coltivazioni. È anche mare, spiagge e antiche pratiche che resistono nel tempo. È da questo legame profondo con il mare che nasce la storia dei fratelli Lubelli, Sergio e Oronzino, protagonisti di una piccola impresa familiare che unisce tradizione, rispetto dell’ambiente e spirito comunitario. Abbiamo incontrato Sergio in pescheria, tra casse colme di pescato fresco: ombrine, scorfani, seppie, polpi. "Siamo usciti stamattina alle 5:30," racconta, con la naturalezza di chi ha il mare nel sangue. Eppure la famiglia Lubelli non è nata nella pesca. "Nostro padre era operaio specializzato. Abbiamo imparato tutto da amici di Fasano, famiglie di pescatori che si sono trasferite qui. Così, con il tempo, ci siamo appassionati e abbiamo iniziato anche noi." Tutto è cominciato con una barca usata, acquistata da un’altra famiglia che aveva scelto di cambiarla. Poi, nel 1998, la costruzione della barca nuova, pensata su misura per il loro lavoro. Infine, l'apertura della pescheria e, successivamente, della friggitoria. Oggi, questa attività è un punto di riferimento per il litorale leccese, frequentata da chi cerca pesce fresco e autenticità. "Fare il pescatore è un mestiere duro," spiega Sergio. "Si esce anche a Natale, anche con la pioggia, quando il tempo lo consente. Solo se ce l’hai nel sangue, puoi affrontare i sacrifici." La giornata tipo inizia all'alba – o anche nel cuore della notte, nei periodi di pesca delle triglie – e non conosce orari fissi. "Il mare non aspetta," aggiunge sorridendo. Oltre al lavoro, c’è un profondo rispetto per il mare: "Non puoi fare lo spavaldo. Il mare va rispettato, sia nei suoi tempi che nella sua natura." I fratelli Lubelli partecipano anche a progetti per la pulizia del fondale marino: "Abbiamo trovato di tutto nelle reti, anche lavatrici. Ora raccogliamo i rifiuti e li riportiamo a terra, grazie a un progetto delle cooperative." Il rispetto per l’ambiente si riflette anche nelle tecniche di pesca: "Usiamo reti con maglie più larghe, per non catturare i pesci piccoli e non impoverire il mare. È una scelta che nel lungo periodo dà frutti migliori." L’azienda oggi è una realtà viva e inclusiva, dove lavorano anche giovani locali e persone immigrate. "Abbiamo offerto lavoro e una casa a Sabir, che arriva dal Bangladesh. Per noi è parte della famiglia." La storia personale si intreccia con quella di Frigole: la famiglia Lubelli ha radici profonde qui. "Nostra nonna aveva un tabacchino a Borgo Piave, sotto le case della marina. Nostro padre è nato a Vernole, ma si è trasferito qui. Oggi quel tabacchino è ancora della nostra famiglia, gestito da mio nipote." Dalla prima barca acquistata per passione, alla costruzione di una realtà solida e stimata, quella dei Lubelli è una storia che parte dal mare e arriva ai cuori – e ai palati – di chi sceglie ogni giorno la loro pescheria o si siede d’estate nella loro friggitoria. Un esempio di come, anche in un piccolo borgo come Frigole, si possano costruire modelli sostenibili e radicati nella tradizione, capaci di guardare al futuro con rispetto e determinazione.
LA CASERMA DELLA MARINA DI BORGO PIAVE
60 ANNI DI CONVIVENZA CON LA COMUNITA’
Capo Barbato, classe 1951, da Frattamaggiore in provincia di Napoli, ci racconta la sua testimonianza sulle “case della Marina” di Borgo Piave. Così infatti era chiamata dalla comunità la caserma sorta nei primi anni ’40 nei locali costruiti alcuni anni prima dall’Opera Nazionale Combattenti per ospitare operai delle bonifica e contadini, che furono poi requisiti per fare spazio al presidio della Marina militare.
Antonio iniziò il corso di radiotelegrafista in marina a soli 16 anni e, prima di arrivare a Borgo Piave nel 1975, fu imbarcato per alcuni anni. A Borgo Piave era stata realizzata una delle tre stazioni radio-goniometriche della Marina Militare (le altre due erano a Sottomarina di Chioggia e a Pula di Cagliari) conosciute a livello internazionale perché svolgevano una funzione importante per tutto il mediterraneo; ma qual era questa funzione? Ci risponde Capo Barbato “Il servizio che svolgevano le stazioni RG consisteva nel comunicare alla navi mercantili il proprio ‘punto nave’ cioè la posizione in mare attraverso i calcoli appunto radio-goniometrici svolti congiuntamente dalle tre stazioni della Marina Militare. Oggi ci sono i GPS addirittura sui nostri telefonini, che ci danno la posizione attraverso i satelliti, ma fino al 1975-76 erano necessari calcoli complessi.”
E dopo? Qual è stata la funzione del presidio di Borgo Piave. “Successivamente è stato trasformato in stazione metereologica, che è rimasta in funzione fino alla chiusura del presidio nel 2001. In realtà gli strumenti tecnologici non erano nel Borgo, ma vicino alla masseria Olmo, sulla via Vecchia Frigole. Nelle ‘Case della Marina’, sulla Piazza del Borgo, c’era soltanto la caserma, dove risiedevano i militari di leva, il personale tecnico e i graduati. In tutto, nei primi anni, erano ospitate fino a 70 persone, che sono poi man mano diminuite fino ad una trentina con la perdita di importanza del presidio.”
I marinai di leva erano sottoposti ad un addestramento tecnico? “No. In realtà svolgevano soltanto mansioni di manutenzione della caserma, mentre le funzioni di controllo degli strumenti tecnologici erano svolti dai graduati e da personale tecnico non militare.”
Quali erano i rapporti tra il personale della caserma e la comunità di Borgo Piave? “Assolutamente buoni, anzi direi ottimi. C’era cordialità, collaborazione, rispetto reciproco. Probabilmente ha giocato nel favorire rapporti positivi la simpatia e la cordialità del Comandante Capo Tizzoni, sempre aperto e disponibile a favorire i rapporti con la comunità. Molto spesso i ragazzini venivano accolti per giocare a calciobalilla con i giovani di leva o tra di loro. Il giorno di Santa Barbara, la protettrice della Marina Militare, si teneva un festeggiamento a cui si invitavano anche gli abitanti del Borgo. In caso di necessità i militari intervenivano per portare aiuto, magari anche solo per trasportare in città chi aveva problemi urgenti di salute. Poi si sono succeduti al comando capo Bolelli, Capo Quagliotti, Capo Siciliano, che hanno continuato a favorire un clima favorevole e una convivenza positiva.”
Clima favorevole che ha prodotto anche tanti matrimoni! “In caserma c’erano tanti bei ragazzoni, giovani e magari timidi, ma ci pensavano le ragazze del posto a farsi notare. Ci sono stati molti matrimoni: Biagio, Mimmo, Michele, Emilio, Rosario sono convolati a nozze stabilendo a Borgo Piave la loro residenza, anche se il servizio in Marina richiedeva periodi di imbarco o la loro presenza a Taranto o a Brindisi. Roberto, Giovanni dopo il servizio di leva hanno continuato a vivere nel Borgo, ma ci sono stati anche altri matrimoni tra militari, di cui non ricordo i nomi, e ragazze del luogo che poi si sono trasferiti altrove. Ricordo come prendevamo in giro Biagio perché stava sempre a guardare nella casa di fronte, dove abitava la ragazza che poi è diventata sua moglie: ‘Ti consumi il nervo ottico a forza di guardare!’ gli dicevamo.”
Anche tu sei rimasto a Borgo Piave “Anche se mia moglie è della mia zona di nascita abbiamo deciso di rimanere qui a Borgo Piave dopo la pensione, perché ci siamo trovati bene, perché ci piace. Addirittura i miei suoceri si sono trasferiti in una casa vicino alla nostra perché era un posto tranquillo e amavano la campagna, e la sorella di mia moglie si è sposata con una persona del Borgo. Una cosa che mi fa molto piacere è la simpatia e il rispetto che la gente del luogo mi ha accordato e continua ad accordarmi.”
(Interviene la signora Assunta, la moglie) “All’inizio ero un po’ sconcertata dal fatto che tutti mi chiamavano signora e poi mi davano del tu. Non capivo il perché, a Napoli si usa dare il ‘voi’ alle persone non di famiglia. Poi mi hanno spiegato che nel vostro dialetto non esiste il voi o il lei ma soltanto il tu, anche se ci si rivolge alla persona chiamandolo ‘Ssignuria’. Sto bene. Mi piace il luogo e la gente.” La breve intervista finisce con un buon caffè, napoletano ovviamente. (a cura di Ernesto Mola)
Gli edifici di Borgo Piave denominati “Case della Marina” furono costruiti con il solo piano terra dall'Opera Nazionale per i Combattenti a partire dall'autunno del 1922 per ospitare i coloni ex combattenti che avrebbero dovuto coltivare i terreni che l'Opera aveva da poco confiscato, e soprattutto dissodarne di nuovi togliendo la macchia e le rocce affioranti (si trattava di zone presso le masserie Olmo, Sava, Janne, Cervalura non interessate da paludi).
La parte bassa dei lunghi caseggiati di Borgo Piave (le sopraelevazioni avverranno una decina di anni dopo), come le analoghe case lunghe e basse situate nel centro di Frigole, sono da attribuire all'Opera Combattenti non ancora commissariata dal Fascismo e quindi presentano una tipologia architettonica prefascista. Per altro sia la vasta piazza di Borgo Piave come la piccola piazzetta Alberti di Frigole sanno emanare con la loro tipicità un fascino e una curiosità del tutto particolari. La Marina occupò in maniera progressiva una parte notevole di quelle case a partire dalla seconda guerra mondiale fino al 2000. (Per inciso annotiamo l'importante risvolto sociale di quella presenza costituito dal consistente numero di matrimoni tra marinai e ragazze del luogo).
Negli anni Venti e Trenta l'Opera Combattenti ha realizzato una serie di altre costruzioni, principalmente case coloniche, utilizzando varie tipologie edilizie a tutt'oggi ben individuabili sul territorio (come lo sono le case costruite negli anni Cinquanta dall'Ente Riforma). Siamo dunque di fronte ad un patrimonio storico e architettonico che è peculiare, unico, di assoluto interesse, e che per questo non solo va salvaguardato fin nei dettagli della sua fisionomia (ogni suo utilizzo, presente e futuro, dovrà rispettare questa condizione), ma anche valorizzato.
Ormai da alcuni anni è in corso di realizzazione un progetto del Comune di Lecce, a cui il bene è stato traferito nel 2015, per la trasformazione delle “Case della Marina” in alloggi di Edilizia Residenziale Popolare. Il progetto salvaguarda il prospetto originario ricomponendo gli interni in appartamenti confortevoli e moderni per giovani coppie con figli. Ci saranno anche alcuni locali commerciali prospicienti la piazza e un parco giochi all'interno. Una buona occasione per rivitalizzare il borgo e ringiovanire la sua popolazione. (
A cura di _Antonio Passerini, curatore del libro storiografico: Una Comunità dalle molte radici)
C'era una volta un pescatore di nome Marcello che abitava in un borgo con un lago vicino al mare. Il lago si chiamava Acquatina ed era ricco di pesci di tutti i tipi. Da ogni parte venivano pescatori attirati dalla ricchezza del lago. Vicino c'era un castello dove vivevano i principi Acquatina con il loro figlio. Un giorno, come sempre, Marcello andò a pescare nel lago ma le reti rimasero vuote. E così anche i giorni successivi. Il cielo da allora divenne grigio, senza sole. Marcello e gli altri pescatori erano disperati perché non sapevano cosa dare da mangiare alle loro famiglie, e tutti facevano la fame. Ogni giorno Marcello buttava le reti. Ogni giorno le ritirava vuota. Un giorno però sentì che la rete era pesante e la tirò su in barca: dentro c'era un piccolo delfino. In quel momento l'acqua del lago cominciò a ribollire. Uscì fuori dall'acqua la testa di un grande delfino che cominciò a parlare: "Pescatore, ti prego, libera mio figlio, lascialo vivere. Io sono la principessa Acquatina. Il principe mio marito è morto. La regina sua madre, una strega potente, è venuta nel castello e ha trasformato me e mio figlio in delfini perché gelosa e pazza di dolore per la morte del principe. Per la mia tristezza tutti i pesci hanno abbandonato il lago. Ti aiutarci a rompere l'incantesimo, affinché noi possiamo tornare nel castello ei pesci nel lago”. Marcello libererò il piccolo delfino e tornò a casa emozionato per l'incontro con la principessa. Pensava a come poteva aiutarla e rompere l'incantesimo. Mentre arrivava a casa vide uno stormo di undici anatre capoverde che si posarono proprio nel pantano dietro casa sua. Marcello si avvicinò e le anatre iniziarono a parlare: “Buon Marcello, se la principessa vuoi liberare ei pesci ritrovare, in una notte di luna piena nel lago dovrai andare ea mezzanotte la principessa dovrai baciare”. Marcello, che viveva con la vecchia madre, decise di fare quello che le anatre avevano detto. Così, in una notte di luna piena, a mezzanotte, e andò al centro del lago, dove aveva incontrato la principessa e suo figlio, e iniziò a chiamare: “Principessa!” “Principessa Delfino!” La principessa comparve, tirò fuori dall'acqua la sua testa di delfino, accanto a lei c'era il figlio. Il pescatore si buttò in acqua, nuotò verso di lei, e la baciò. Improvvisamente la principessa si trasformò in una bellissima fanciulla e il piccolo delfino in un bel bambino. Il lago si riempì di nuovo di pesci. La principessa felice e Marcello si innamorarono. Nel frattempo la regina madre cattiva era morta, e loro così si sposarono e andarono a vivere nel castello dell'Acquatina, e vissero per sempre felici e contenti.
C'è una lunga strada che esce dal rione Santa Rosa di Lecce in direzione nord e che è denominata Via Giammatteo. Si tratta di un secolare tracciato, qua e là “raddrizzato”, che dalla città porta appunto alla antica masseria Giammatteo, nel circondario di Frigole e da lì alla masseria Solicara. Quella strada è percorsa il sabato e la domenica da frotte di Leccesi che vanno a rifornirsi di pane, pittule e altre leccornie al forno situato di fronte alla masseria e al vicino stabile, armonioso e compatto, dell'oleificio che ha compiuto da poco il secolo di vita. L'osservatore attento nota che Giammatteo non ha sopraelevazioni, elemento costruttivo che invece è comune alle masserie e che era abitazione temporanea, nei mesi più caldi o in occasione dei raccolti, dei facoltosi proprietari residenti in città. Ma anche Giammatteo fu per secoli una masseria “normale”, e lo fu fino al 1939, quando il 23 ottobre un terribile ciclone sconquassò l'edificio e rese pericolante la parte alta che fu abbattuta e non più ricostruita, lasciando così la costruzione “decapitata”. Fu invece ristrutturato tutto il piano terra, ampliando i fabbricati e la spaziosa corte interna attorno alla quale furono ricavate otto abitazioni per i coloni. La masseria è antica: è infatti del 1483 il primo documento che la cita come “massaria dello Pellitta”, insieme alla vicina Turriso-Stomeo, detta poi Giammatteo Vecchio, di cui oggi resta solo un brandello di muro. La denominazione Giammatteo (probabile nome o cognome dei proprietari di allora) appare per la prima volta nel 1625, quindi 400 anni fa giusti giusti. La masseria attraversò i secoli secondo ritmi di vita e di fatiche comuni a tutte le altre sue “consorelle”: vicende che potrebbero essere raccontate da alcuni possenti olivi, antichissimi, presenti nelle sue pertinenze. E veniamo al 1912: in un corposo documento dell'avvocato Nicola Bodini relativo a una vertenza del Comune di Leccce contro varie masserie, Giammatteo appare di proprietà di Leonardo, Teresa e Benedetto Mancarella ed è estesa circa 340 ettari. Ma già nel 1920 essa passa all'Opera Nazionale Combattenti (ONC) che diviene proprietà di 2.400 ettari di territorio che ha come centro di riferimento Frigole. Verso la metà degli anni Trenta l'ONC affida a mezzadria Giammatteo a Donato Corrado, originario di Supersano come la moglie Carmela Tronci, genitori, i due, di una numerosissima figliolanza che ha messo radici. Alla masseria l'ONC assegna il numero 19, che con l'Ente Riforma a partire dal 1956 diventerà il numero 214.
Al limitare di Borgo Piave, sul lato sinistro della strada che porta a Giammatteo (tagliata dalla più importante Frigole-Lecce) sorge la masseria Cervalura. Quel tracciato è molto antico, più della stessa masseria, e collegava, in linea parallela col mare Adriatico, varie masserie.
Perché “antico più della stessa masseria”? Perché Cervalura è nominata per la prima volta “solo” nel 1641, poco meno di 400 anni fa e si ritiene sia nata come “figlia” della masseria La Grande, poco distante, allora in progressiva espansione.
In un documento, appunto del 1641, si citano le due masserie come proprietà di Giovanni Antonio Maremonti, chierico, il quale fonda sulle rendite annuali di esse un capitale a favore del monastero di San Matteo di Lecce. In quello scritto si dice che Cervalura ha “curti”, case e pozzo, e che il suo territorio è coperto da molta “macchia” (forse l'antenata dell'attuale “bosco della Cervalura”, tra Borgo Piave e Gimmatteo, grande e bello, meta di passeggiate).
Pochi decenni dopo, agli inizi del Settecento, la Cervalura è citata come proprietà degli Olivetani del monastero dei Santi Nicolò e Cataldo, che già da oltre 200 anni detengono la masseria Frigole.
E veniamo alla sorprendente notizia del 1912, dopo aver annotato che già nel 1909 l'estensione delle masserie era diventata questione incandescente perché giudicata in gran parte illegittima, con episodi violenti e varie devastazioni che avevano coinvolto anche la Cervalura. Dunque nel possente documento del 1912 dell'avvocato Nicola Bodini in difesa degli interessi del Comune di Lecce in vertenza con i proprietari di un'ottantina di masserie, si citano addirittura due masserie “Cervalora”: una estesa 96 ettari, l'altra 307 ettari, quindi questa seconda molto grande (sicuramente è qui compreso anche il citato bosco).
Nel 1921 la Cervalura, come la masseria Olmo, passa per esproprio all'Opera Nazionale Combattenti ed è condotta dal 1932 al 1940 da Alessio Prontera di Specchia, ex combattente della I guerra mondiale, quindi da Francesco Gravili di Vernole, poi ad altri proprietari.
Nel 2013 sul n° 1 del giornale “Voci da Frigole”, edito dal nostro Comitato unitario (Cufrill), abbiamo riportato i ricordi di piccola bambina, legati alla laboriosa e vivace vita della masseria Cervalura, di Rita Prontera, nata nel 1931 ultima dei 10 figli di Alessio e Maria Rosaria De Donatis. Ne riportiamo uno, drammatico: “Piango disperata di paura quando il terribile uragano del 1939 [23 ottobre] rovescia a terra le mucche spezzando loro le corna, le tegole del tetto sono spazzate via, “lu tata” (il papà) è incollato al suolo con la faccia all'ingiù e le mani a coprirsi la testa...”
Nino ha affrontato il lavoro in campagna sempre col sorriso e con passione. Ancora oggi, a 96 anni, non riesce a distaccarsene. Ogni giorno, infatti, si dedica a piccoli lavori nei campi. Oltre all'amore per la terra, Nino ha un sogno nel cassetto che coltiva fin da ragazzo: il volo, gli aeroplani. Lo abbiamo intervistato, insieme alla moglie Teresa, nella loro graziosa casa, sotto lo sguardo vigile e affettuoso della famiglia. Il suo nome completo, Arcangelo Bruno, è importante e solenne, tanto che nel tempo è stato affettuosamente abbreviato in "Nino". «Sono arrivato qui a Frigole nel 1944. Avevo appena 16 anni», racconta. Mio padre è morto pochi anni dopo, nel '47.» Teresa, al suo fianco, aggiunge: «Ci siamo sposati nel 1963, dopo undici anni di fidanzamento. Ci conoscevamo da quando io ero una ragazzina. Ma a casa mia non erano contenuti all'inizio… così per un periodo mi fidanzai “per finta” con un ragazzo della polizia!» Lei è nata proprio a Borgo Piave, in una delle famiglie numerose del posto: «Eravamo 17 fratelli. Mio padre si chiamava Massaro e aveva ricevuto l'assegnazione della terra dalla riforma fondiaria. Con quella terra producevamo di tutto: olio, grano, ortaggi. eravamo anche due mucche, assegnate insieme ai campi. Ci davano tutto: attrezzi, animali, sementi...» Nino interviene: «Pagavamo ogni anno i bollettini, ma almeno non c'erano strozzinaggi o la mezzadria come altrove. Era una terra che potevi sentire tua. «E poi gli ulivi…», ricorda Nino, «quanti alberi ho potato! Anche adesso vado ancora nell'uliveto, piego la schiena, accendo il fuoco per bruciare le potature. Sono io a scegliere dove mettermi, in base al vento.» A scuola ci sono andati entrambi, sebbene in modo saltuario: Teresa frequentava a Borgo Piave fino alla terza elementare, mentre Nino ricorda la sua esperienza in una masseria sulla strada per San Donato, dove i maestri insegnavano ai figli dei contadini. E se poteva rinascere? Nino non ha dubbi: «Lavorerei ancora in campagna. Ma non da produttore, no. Meglio a stipendio, una giornata… meno responsabilità.»
Nel bacino costiero di Acquatina, a Frigole, cresce abbondante il Juncus acutus, noto come giunco spinoso, pianta perenne tipica degli ambienti umidi e salmastri. L'etimologia del suo nome richiama l'idea di legame e punta, riflettendo le sue caratteristiche morfologiche. Sebbene in botanica il termine “giunco” indichi solo le specie del genere Juncus, nel linguaggio comune includono varie erbe palustri con fusti rigidi, utilizzate da secoli nell'artigianato locale per creare stuoie, cesti, corde e utensili impiegati in ambito agricolo, domestico e artigianale.
Il giunco è una pianta erbacea perenne che può raggiungere un'altezza di circa 120 cm e cresce formando cespugli fitti e compatti, larghi fino a un metro e mezzo, difficili da attraversare. I suoi fusti, rigidi e cilindrici, sono di colore verde scuro e terminano con una punta. Le foglie, molto simili ai fusti sia per forma che per consistenza, sono dritte, appuntite, lunghe tra i 30 ei 50 cm, e avvolte alla base da guaine brevi, scure e lucide. I fiori, di piccole dimensioni e tonalità bruno-rossiccia, sono riuniti in un'infiorescenza globosa chiamata antele, che si origina da una brattea scura e appuntita, simile a una barchetta. Ogni fiore è composto da due serie di tepali e da stami con antere rossastre e ben evidenti. Il frutto è una capsula ovale, appuntita, che racchiude tre semi bruno-rossastri di forma fusiforme e dotati di endosperma. I fusti rappresentano la parte più utilizzata della pianta, in quanto adatti alla realizzazione di stuoie, cesti e altri oggetti intrecciati; vengono raccolti quando i frutti sono maturi, tra settembre e ottobre, momento in cui risultano più duri e resistenti, ma in base all'uso desiderato possono essere prelevati anche in fasi precedenti per ottenere maggiore flessibilità.
Oltre all'intreccio, in passato i fusti appuntiti venivano usati per tenere lontani gli uccelli dai vigneti o per infilzare pesci, funghi e altri prodotti venduti poi in mazzi chiamati serti.
Al giunco sono state attribuite nel tempo anche proprietà magiche e curative: in alcune zone della Sardegna, ad esempio, è stato impiegato in riti scaramantici per proteggere i bambini, curare malattie o far scomparire i porri, attraverso gesti simbolici come saltare sopra un fusto, annodarlo e gettarlo in acqua, con l'obbligo di non tornare mai più nel luogo del rito.
In passato, le zone umide del Salento offrivano questa risorsa in abbondanza per l'artigianato locale, in particolare per la produzione di oggetti intrecciati a mano. Intorno a questa pratica si sviluppò una vera e propria filiera, in cui ogni fase richiedeva competenze specifiche. I primi a entrare in azione erano i raccoglitori, capaci nel riconoscere e selezionare le piante più adatte all'intreccio. Il materiale veniva poi ordinatamente legato in fascine e affidato ai trasportatori, che lo spostavano con carri fino ai luoghi di lavorazione. Una volta giunta a destinazione, le fibre vengono trattate per prepararle alla tessitura: lavate, essiccate e sbiancate, passavano di mano in mano fino agli artigiani, che con maestria le trasformavano in oggetti di uso quotidiano o decorativo.
Anche se la fase finale dell'intreccio era spesso affidata alle donne — giovani e anziane — il ruolo degli uomini restava centrale, soprattutto nei momenti iniziali del processo. All'alba o durante le ore più fresche della notte, raggiungevano le paludi a piedi, in bicicletta o con piccoli carretti per raccogliere il giunco. Rientravano a casa solo dopo lunghe ore di lavoro sotto il sole cocente. Una volta raccolto, il giunto doveva essere sottoposto a diverse lavorazioni per diventare più duttile. I passaggi principali comprendevano la bollitura, l'essiccazione (che durava circa due settimane, durante le quali il materiale acquisiva una tonalità gialla) e infine la zolfatura. Quest'ultima consisteva nell'appendere i giunchi umidi in ambienti chiusi, saturi dei vapori sprigionati dallo zolfo riscaldato in pentole: un trattamento che rendeva il materiale ancora più morbido e pronto per essere intrecciato. A quel punto intervenivano le mani esperte delle donne, sedute a terra su sacchi di iuta o coperte, che trascorrevano ore a intrecciare con straordinaria perizia. Ogni fase dell'intreccio — dalla base ai fianchi fino al bordo — richiedeva tecniche specifiche. Tra i prodotti più comuni che hanno preso forma da questo processo ricordiamo le sporte, le fiscelle ei panari: oggetti semplici, ma carichi di storia, fatica e sapienza artigiana.
A seconda del luogo, gli artigiani si specializzavano in produzioni specifiche: ad Acquarica, ad esempio, si realizzavano soprattutto "spurteddhe" (cesti), "cannizzi" (graticci), nasse da pesca, fischi e accessori per frantoi; a Bagnolo del Salento, invece, la produzione si concentrava su cordame, filati e oggetti per l'agricoltura e la pesca.
Oggi, la crisi dell'artigianato legato alla produzione del giunco ha avuto gravi conseguenze sia economiche che ambientali, portando all'abbandono di zone umide di alto valore ecologico come il SIC Acquatina di Frigole. La perdita di questa tradizione ha comportato la scomparsa di un'intera filiera produttiva e di un patrimonio culturale unico.
Curiosamente, gli artigiani dell'intreccio svolgevano un ruolo importante nella gestione delle zone umide. Per poter raccogliere il materiale, essi pagavano un compenso ai proprietari dei terreni in cui si trovavano le paludi, contribuendo a mantenere l'equilibrio tra le diverse specie vegetali.
Pochi la conoscono, ma svetta ancora sul panorama del lago di Acquatina la costruzione edificata da Federico Libertini per ospitare i cacciatori.
Se dal centro di Frigole si prende, in direzione nord, la “strada dei poderi” (via Matteo Fiorini), poco prima di immettersi sulla litoranea presso il podere della famiglia Cardone si vede uno strano edificio a torre, con una scala esterna e un comignolo.
Perché quel nome? Sicuramente la costruzione è più vecchia della vicina casa poderale, che è una delle tante con la scala esterna rotondeggiate costruita dall’Opera Nazionale Combattenti nel 1937. Verosimile è invece l'ipotesi che fu Federico Libertini a erigerla poco dopo il 1870. E’ particolare la sua posizione: dal lato del mare, un tempo, era quasi lambita dal lago-stagno dell'Acquatina dai contorni irregolari, mentre verso l'interno da lì si stendeva la grande palude, anch'essa denominata “dei cacciatori”. Un luogo ideale per la caccia, perché spaziava su una zona umida che si perdeva a vista d’occhio.
Successivamente le grandiose bonifiche degli anni Trenta del Novecento hanno trasformato il volto al paesaggio: l'Acquatina fu ridotta e divenne lago-bacino, mentre la palude fu bonificata in fertili campagne.
La casa-torre ha un vano a piano terra. Una scala esterna porta al piano di sopra in un piccolo, rudimentale “soggiorno”, dove è possibile accendere il fuoco e da dove era possibile sparare alla cacciagione in tutte le direzioni. Un altro tratto di scala esterna sale sul tetto a terrazza leggermente ricurva. La visuale è vastissima.
Quella casa-torre è servita anche ad altro lungo il Novecento. Fu, per esempio, “ufficio pagamenti” degli operai addetti alla grande bonifica degli anni Trenta dell'Opera combattenti; in seguito fu punto d'appoggio per i raccoglitori di giunchi, di cui è ricca la zona, che provenivano per lo più dai “paesi del Capo”.
La Casa dei Cacciatori merita ancora la nostra attenzione perché è una traccia significativa dell’opera di Federico Libertini a Frigole.