Sulle tracce della Via del Carro

Un antico basolato che affiora tra i campi, solchi profondi scavati nella roccia viva dal passaggio incessante dei carri, toponimi che conservano la memoria di un tempo remoto: è questo lo scenario che ci accoglie lungo la cosiddetta Via del Carro, una strada di origine romana che attraversava il territorio leccese collegando due porti strategici del Salento, Brindisi e Otranto. L'escursione, partita dalla Masseria Gianmatteo, è stata guidata da Alessandro Romano, documentarista e regista che da anni si dedica allo studio e alla divulgazione delle antiche vie romane. Romano ci ha accompagnato in un vero e proprio viaggio indietro nel tempo, mostrandoci i resti ancora visibili di una delle arterie più importanti per l'economia salentina fra Medioevo e Rinascimento. La Via del Carro correva parallela alla costa adriatica, mantenendo una distanza di 2-4 chilometri dal mare, e collegava Brindisi con Otranto passando per il territorio di Lupiae, l'antica Lecce. La sua importanza crebbe in particolare nel Quattrocento, quando i documenti d'archivio testimoniano un traffico intensissimo di merci, tanto da rendere quella via una delle più percorse del Salento. Il nome stesso, “Via del Carro”, deriva dal continuo solcare della strada da parte dei carri agricoli. I solchi profondi che si osservano ancora oggi sono la prova tangibile del tempo e dell'intensità dei passaggi. Lungo il suo tracciato si trovavano numerose masserie agricole che, attraverso questa arteria, convogliavano i prodotti della campagna verso i porti. La merce più preziosa trasportata lungo la Via del Carro era senza dubbio l'olio lampante. Prodotto in quantità enormi, l'olio salentino raggiungeva Gallipoli, dove veniva fissato il prezzo di mercato, per poi essere esportato verso Londra e da lì in tutta Europa. Tracce del commercio oleario salentino sono state rinvenute persino in Siberia. Quella ricchezza agricola rese necessario fortificare le masserie, trasformandole in presidi di resistenza contro le incursioni turche. Fu proprio questa prosperità, fondata sulla terra e sull'olio, a finanziare nei secoli successivi la magnificenza del barocco leccese. Il percorso dell'escursione si è spinto poi fino a Ramanno, al confine tra le bonifiche di Frigole e quelle di San Cataldo. In questa località sorgeva un'antica villa manifatturiera, sede di produzione di ceramiche da trasporto destinate ai mercati mediterranei. Qui la strada romana mostra ancora solchi profondi nella roccia, vere e proprie corsie parallele che testimoniano un traffico intenso e costante. Grazie anche agli scavi condotti recentemente, è emersa la presenza di un ulteriore porto romano a sud del molo di Adriano (San Cataldo), un'infrastruttura di grandi dimensioni che ampliava la rete di collegamenti tra Rudiae, Lupiae e il mare. Il paesaggio attraversato da queste antiche vie è un museo a cielo aperto: basolati, solchi, cocci di anfore, resti di fornaci.È proprio questa stratificazione di memorie che l'Ecomuseo delle Bonifiche di Frigole si propone di valorizzare, accompagnando visitatori comunità e locali alla riscoperta di un territorio che ha ancora molto da narrare. 

https://www.youtube.com/watch?v=1ZoumxavEOo

La rivincita di Casa di Simini su Borgo Monte Grappa

La prima immagine delle cinque casette del nuovissimo Borgo Monte Grappa sembra un fotomontaggio: si vedono infatti cinque edifici ad un piano, identici, poggiati a terra in un “ambiente irreale”, senza nessuna forma di vita, senza collegamenti... La foto è del 28 ottobre 1930, non a caso ottavo anniversario della marcia su Roma: quelle case, finite o non finite, dovevano essere inaugurate quel giorno, come i caratteristici sette edifici a due piani di Borgo Piave. L'immagine fu scattata dalla terrazza-tetto dello stabile a due piani chiamato ancor oggi, con una certa enfasi, “Palazzo”, costruito nel 1927 come più modesta “Casa dei vaccari”. Ma di quali “vaccari” si tratta? Di quelli della vicina “Casa di Simini” (o Simmeni), dal cognome di un precedente proprietario, una sorta di piccola masseria, appunto solo “casa”, dedita all'allevamento di bovini in stato semibrado. L'esterno della fattoria era stato notevolmente modificato poco prima del 1910 dai “Fondi Rustici”, la società allora proprietaria, in vasto recinto contornato da muro e, su un lato, da un'alta e lunga fila di archi aperti, rifugio per la mandria di bovini sul lato verso sud e per il gregge di pecore dall'altra parte. (I “Fondi Rustici” avevavo dato un forte incrementato all'allevamento di animali di grossa taglia).

Ma quel territorio aveva già vissuto per un paio di decenni un' “esperienza” di importanza vitale per il suo futuro. Verso il 1870, infatti, era divenuto proprietario di quella tenuta (oltre che delle masserie Frigole e Lamia) Federico Libertini, proprio colui che ha dato inizio alla storia moderna di tutto quel territorio. ù

Da subito nelle terre della Casa di Simini il nuovo padrone aveva avviato massicci lavori di bonifica, molto costosi, costruendo canali, prosciugando paludi, mettendo a coltivazione nuove campagne... Sappiamo che poco dopo il 1890 Libertini fu costretto dal tribunale a subire il fallimento e che le sue proprietà passarono alla creditrice Banca d'Italia. Ma sappiamo anche che i pregevoli risultati dei suoi grandi progetti (chiamati anche “sogni”) furono più volte ammirati di persona, pochi anni dopo, da ministri e grosse personalità e che non a caso Roma incluse, oltre al territorio di Frigole, anche le terre di Casa di Simini nella grande bonifica nazionale decisa nel 1900.

Altre sono poi le vicende della “Casa”, a partire dal anni Cinquanta del Novecento (allevamento di fagiani, sede dei cacciatori...), rimasta comunque sempre poco notabile dalla frequentata strada che le passa davanti. La rivincita: a quelle cinque case del 1930, magari modificate nel tempo, e a tutte le altre costruite dopo il 1950, la gente fece recuperare, un po' modificato, l'antico nome che ora è Case Simini, mentre ancora sopravvive sul territorio qualche cartello con la scritta arrugginita di “Borgo Monte Grappa”.

La Masseria Olmo ha attraversato i secoli sempre con lo stesso nome

Anche Olmo, come Ficule (Frigole), è antichissimo nome. Infatti nel documento del 1057 (data non accettata da tutti gli storici) in cui si nomina Ficule figurano anche le “terre Ulmi”, cioè le terre di Olmo (nome di pianta ad alto fusto). Ulmus latino è diventato Olmo nel parlato popolare del Medio Evo e quel nome del primitivo casale è rimasto per sempre appiccato a quella masseria, pur nei cambiamenti di struttura e di proprietà lungo i secoli.

La masseria fa bella mostra di sé sul lato nord, un po' arretrata, della “via vecchia Frigole”, vale dire del secolare tracciato che dalla città di Lecce portava, in direzione del mare Adriatico, verso il casale-masseria Ficule e verso altre masserie.

La sua storia, fatta di lavoro sudato dei sottoposti e di qualche dramma, è analoga a quella di tante altre masserie, con qualche sua particolarità. Ne vediamo una: in un documento del 1586 nel suo territorio figurano, accanto a varie “fattizze”, le “macchie dei malandrini”, appellativo che solletica la fantasia. Nella seconda metà del Cinquecento figura anche in un elenco di masserie fortificate: si circondava la masseria con un muro alto e compatto e si innalzava una sorta di solida torre per difendersi da improvvisi sbarchi di “turchi” (nome affibbiato a tutti i predoni, sulla costa dell'Adriatico che razziavano le masserie ei piccoli villaggi, conducendo via, incatenate, anche le persone).

Nel 1912, in occasione della durissima vertenza tra il Comune di Lecce e un'ottantina di masserie per il pagamento di una quota relativa alla grande bonifica statale-provinciale iniziata nel 1904, Olmo figura con un'estensione di 277 km quadrati, di proprietà di Enrichetta Rossi moglie Giuseppe Raho, ma quando nel 1920 il territorio di Frigole diventa proprietà dell'Opera Nazionale Combattenti, la masseria Olmo è espropriata e suddivisa dapprima in 4 parti poi in sole 2, affidate alle famiglie Greco e Guarascio, a tutt'oggi proprietarie.

In una foto significativa degli anni Venti, accanto alla masseria si erge un alto “mulino a vento”, con grande ruota orientabile, adibito all'irrigazione. Da alcuni anni il prospetto armonioso della masseria Olmo, è diventato, stilizzato, il logo dell'Ecomuseo delle Bonifiche di Frigole.

Bunnanzia e Cocu

“Dicono che adesso c’è crisi, povertà, miseria, ma non è niente; io so che cosa è la miseria vera, io l’ho vista, io l’ho vissuta”.

Con queste parole iniziava l’intervista di Antonio Passerini a Abbondanza Piccinni, allora 88enne, pubblicata sul giornalino del CUFRILL nel dicembre 2015. “Bunnanzia” arriva a Frigole da Montesano Salentino nel 1947, subito dopo la guerra, sposa di Gregorio (“Cocu”) Carrozzo.

Gregorio ha percorso parecchie volte in bicicletta i 58 km che separano Frigole dal suo paese, finché una volta sulla bicicletta sono venuti in due: una romantica “fuitina” sulle due ruote. Bunnanzia ha raccontato questa avventura col sorriso, come è sua abitudine.

Abitano al podere 57 (che con la Riforma Agraria del ‘52 diventa il n.220) sulla strada che da Frigole porta a Borgo Piave, assegnato al suocero Vincenzo e alla moglie Felicetta Rizzo. Quest’ultima ha fatto nascere allora a Frigole tantissimi bambini; pur non avendo diplomi è stata l’ostetrica ufficiosa del borgo.

L’impatto di Bunnanzia con la nuova realtà è duro, come per tante altre donne trapiantate a Frigole dal paese in cui erano nate, dove avevano i parenti e gli amici di famiglia. Racconta nell’intervista: “Mi vedevo isolata, come in un deserto, senza luce, senza strade se non quelle di campagna segnate dalle ruote ‘te lu trainu’…. La sera, quando si faceva buio, e dovevo salire di sopra dove avevamo la stanza da letto, io avevo paura. E piangevo, piangevo, ma non dovevo farmi sentire, perché mio marito sarebbe andato su tutte le furie”. Bunnanzia è stata molto esplicita nell’intervista, raccontando la completa sottomissione delle mogli al marito-padrone, che decideva qualunque cosa della famiglia. “Oggi se un uomo dà uno schiaffo alla sua donna, lei può lasciarlo e andarsene. Allora non lo potevi fare, non potevi neppure immaginare una cosa del genere. Non avevi alternative…. Erano gli stessi tuoi familiari a mettersi contro di te”.

Bunnanzia lavorava in campagna dall’alba al tramonto e poi le toccavano i lavori di casa. C’era da pascolare le pecore, foraggiare le mucche, zappare e tagliare con la falce, un susseguirsi ininterrotto di giornate di fatica. I Carrozzo, oltre al loro podere, avevano preso a mezzadria anche terreni della masseria Basciucco, perciò il lavoro era sempre tanto. Il marito però prendeva ogni tanto una pausa. Aveva acquistato nei primi anni sessanta un’automobile (tra i primi a Frigole) e a volte si assentava per accompagnare qualcuno in città o all’ospedale o al suo paese d’origine. Per questo Gregorio, ‘Cocu’, godeva di grande considerazione a Frigole, dove era diventato un personaggio. Bunnanzia sapeva destreggiarsi anche nel rammendo e nel cucito, come tante donne in quel periodo, e confezionava spesso abiti e biancheria per sé e per la famiglia. Per il suo matrimonio, celebrato a Lecce alla chiesa di San Francesco da Paola, (la parrocchia a cui apparteneva Frigole) si era confezionato il cappotto da una coperta militare, ma all’uscita dalla chiesa non lo aveva più trovato sulla carrozza dove l’aveva lasciato prima di entrare in chiesa. “Rimasi così senza cappotto e senza coperta”. Sorride Bunnanzia raccontando, dopo 70 anni, la storia. E ne ha raccontato poi un’altra, sulla durezza del fattore che controllava la produzione, che non le consentiva nemmeno di raccogliere senza il suo permesso poche fave dal campo che lei coltivava.

Per fortuna la nascita dei figli le rasserenava la vita. Abbondanza infatti lo fu per davvero per quanto riguarda le nascite: Severina, Rosalba, Antonio, Bianca, Alberto, Giuseppina. Sei figli e poi tanti nipoti. Non ha dimenticato le amarezze del passato ma il tempo le ha sedimentate e rese innocue.

Il piccolo borgo de Lu Sao è “Terra Vergine”

Subito la domanda ovvia del lettore: perché “Terra Vergine”? Nessuna analogia con “foresta vergine” detto di selva impetrabile, ma semplicemente, passi la battuta, è un angolo di territorio non lontano da Borgo Piave abitato da un centinaio di persone quasi tutte di cognome Vergine. Vieni mai? Partiamo da lontano, anzi da lontanissimo, perché la storia de Lu Sao è avvincente e noi la corriamo a grandi passi. Narra la leggenda che nel luogo oggi detto Lu Sao esisteva un bellissimo castello abitato da una regina ricchissima, che possedeva un favoloso tesoro, ben nascosto in un luogo che solo lei conosceva. Ebbene, quando la regina morì, nessuno riuscì a scovare quel tesoro che ancor'oggi, si sussurra, è sepolto in qualche anfratto e invano, nei secoli, hanno cercato di scovarlo i moltissimi cercati venuti anche da lontano. Forse è interrato, si fa per dire, nell'antichissima grotta, non lontana da lì, chiamata “forchia te la milogna”, cioè “tana del tasso”, situata sotto il livello del terreno e della quale è già stato diffuso un video con intervista a Pino e Carmelo Vergine, rintracciabile su sito dell'Ecomuseo delle Bonifiche (per vederlo vai al link https://www.youtube.com/watch?v=KC2rYBRnaFA). Fu “ufficialmente” scoperta nel 1995, già derubata di tanti reperti preistorici quali ossa di animali, punte di pietra, oggetti in osso, manufatti di ferro. Fu in seguito visitata da studiosi che spedirono a Taranto, alla sede della Sopraintendenza dei beni archeologici, varie scatole di materiali. Quindi l'apertura fu chiusa, e lo è ancor'oggi, con una solida inferriata. Si ipotizza che quella “forchia” sia stata abitata da uomini primitivi già a partire da settantamila anni fa. Veniamo a tempi più vicini a noi, se pur ancor lontani. Siamo nel 1555 e la masseria è detta Sava, che è il cognome del suo proprietario, appunto Padovano Sava, il quale molto probabilmente l'ha sviluppato dagli antichi proprietari, i monaci Celestini di Santa Croce di Lecce, che gli devono delle somme di denaro. Ebbene, nel 1555 il proprietario stila un inventario dei suoi beni, e così sappiamo per esempio che una “chiusura” (campo circondato da muro) si chiama Lo Piro, altre due sono Chesurella e Li Fillitti, due campi son detti Infierni Grandi e Infierni Piccoli... Nel 1584 la masseria figura di proprietà di Donato, figlio di Padovano. Ora veniamo più vicini a noi. Nel 1921 quel territorio, ora è chiamato Lu Sao (ma anche Lu Sau, Lu Sa e altro), passa all'Opera Nazionale Combattenti che dopo il 1935 sostituisce quel che resta della masseria, di cui oggi sono sopravvissuti il ​​rudere del pozzo e tracce dell'”aira” dove si battevano i cereali, con due poderi dalla tipica scala esterna rotondeggiante. Nella numerazione di fine anni Trenta, quei poderi sono il 9 e il 10, assegnati appunto alla folta famiglia Vergine, originaria di San Pancrazio Salentino, paese poco dentro la provincia di Brindisi. Il capostipite è Giuseppe e sua moglie è Carmela Bracciavento. Anni dopo, il 9 sarà assegnato al figlio Carmelo, il 10 al figlio Salvatore. Verso la metà degli anni Cinquanta l'Ente Riforma affida altri due suoi poderi, edificati in quel periodo (case ad un piano) a Giovanni e Vito, sempre della stirpe Vergine. Negli anni seguenti il ​​1960 le famiglie si moltiplicano e vengono costruite varie abitazioni, tanto che oggi si può dire: esiste un piccolo borgo “giù” allu Sao.

Frigole e il mare: la storia dei fratelli Lubelli, pescatori per passione

Frigole non è soltanto campagna e macchia mediterranea, canali e coltivazioni. È anche mare, spiagge e antiche pratiche che resistono nel tempo. È da questo legame profondo con il mare che nasce la storia dei fratelli Lubelli, Sergio e Oronzino, protagonisti di una piccola impresa familiare che unisce tradizione, rispetto dell’ambiente e spirito comunitario. Abbiamo incontrato Sergio in pescheria, tra casse colme di pescato fresco: ombrine, scorfani, seppie, polpi. "Siamo usciti stamattina alle 5:30," racconta, con la naturalezza di chi ha il mare nel sangue. Eppure la famiglia Lubelli non è nata nella pesca. "Nostro padre era operaio specializzato. Abbiamo imparato tutto da amici di Fasano, famiglie di pescatori che si sono trasferite qui. Così, con il tempo, ci siamo appassionati e abbiamo iniziato anche noi." Tutto è cominciato con una barca usata, acquistata da un’altra famiglia che aveva scelto di cambiarla. Poi, nel 1998, la costruzione della barca nuova, pensata su misura per il loro lavoro. Infine, l'apertura della pescheria e, successivamente, della friggitoria. Oggi, questa attività è un punto di riferimento per il litorale leccese, frequentata da chi cerca pesce fresco e autenticità. "Fare il pescatore è un mestiere duro," spiega Sergio. "Si esce anche a Natale, anche con la pioggia, quando il tempo lo consente. Solo se ce l’hai nel sangue, puoi affrontare i sacrifici." La giornata tipo inizia all'alba – o anche nel cuore della notte, nei periodi di pesca delle triglie – e non conosce orari fissi. "Il mare non aspetta," aggiunge sorridendo. Oltre al lavoro, c’è un profondo rispetto per il mare: "Non puoi fare lo spavaldo. Il mare va rispettato, sia nei suoi tempi che nella sua natura." I fratelli Lubelli partecipano anche a progetti per la pulizia del fondale marino: "Abbiamo trovato di tutto nelle reti, anche lavatrici. Ora raccogliamo i rifiuti e li riportiamo a terra, grazie a un progetto delle cooperative." Il rispetto per l’ambiente si riflette anche nelle tecniche di pesca: "Usiamo reti con maglie più larghe, per non catturare i pesci piccoli e non impoverire il mare. È una scelta che nel lungo periodo dà frutti migliori." L’azienda oggi è una realtà viva e inclusiva, dove lavorano anche giovani locali e persone immigrate. "Abbiamo offerto lavoro e una casa a Sabir, che arriva dal Bangladesh. Per noi è parte della famiglia." La storia personale si intreccia con quella di Frigole: la famiglia Lubelli ha radici profonde qui. "Nostra nonna aveva un tabacchino a Borgo Piave, sotto le case della marina. Nostro padre è nato a Vernole, ma si è trasferito qui. Oggi quel tabacchino è ancora della nostra famiglia, gestito da mio nipote." Dalla prima barca acquistata per passione, alla costruzione di una realtà solida e stimata, quella dei Lubelli è una storia che parte dal mare e arriva ai cuori – e ai palati – di chi sceglie ogni giorno la loro pescheria o si siede d’estate nella loro friggitoria. Un esempio di come, anche in un piccolo borgo come Frigole, si possano costruire modelli sostenibili e radicati nella tradizione, capaci di guardare al futuro con rispetto e determinazione.

https://www.youtube.com/watch?v=B2Z2W5Lo4_c

Intervista ad Antonio Barbato

LA CASERMA DELLA MARINA DI BORGO PIAVE

60 ANNI DI CONVIVENZA CON LA COMUNITA’

Capo Barbato, classe 1951, da Frattamaggiore in provincia di Napoli, ci racconta la sua testimonianza sulle “case della Marina” di Borgo Piave. Così infatti era chiamata dalla comunità la caserma sorta nei primi anni ’40 nei locali costruiti alcuni anni prima dall’Opera Nazionale Combattenti per ospitare operai delle bonifica e contadini, che furono poi requisiti per fare spazio al presidio della Marina militare.

Antonio iniziò il corso di radiotelegrafista in marina a soli 16 anni e, prima di arrivare a Borgo Piave nel 1975, fu imbarcato per alcuni anni. A Borgo Piave era stata realizzata una delle tre stazioni radio-goniometriche della Marina Militare (le altre due erano a Sottomarina di Chioggia e a Pula di Cagliari) conosciute a livello internazionale perché svolgevano una funzione importante per tutto il mediterraneo; ma qual era questa funzione? Ci risponde Capo Barbato “Il servizio che svolgevano le stazioni RG consisteva nel comunicare alla navi mercantili il proprio ‘punto nave’ cioè la posizione in mare attraverso i calcoli appunto radio-goniometrici svolti congiuntamente dalle tre stazioni della Marina Militare. Oggi ci sono i GPS addirittura sui nostri telefonini, che ci danno la posizione attraverso i satelliti, ma fino al 1975-76 erano necessari calcoli complessi.”

E dopo? Qual è stata la funzione del presidio di Borgo Piave. “Successivamente è stato trasformato in stazione metereologica, che è rimasta in funzione fino alla chiusura del presidio nel 2001. In realtà gli strumenti tecnologici non erano nel Borgo, ma vicino alla masseria Olmo, sulla via Vecchia Frigole. Nelle ‘Case della Marina’, sulla Piazza del Borgo, c’era soltanto la caserma, dove risiedevano i militari di leva, il personale tecnico e i graduati. In tutto, nei primi anni, erano ospitate fino a 70 persone, che sono poi man mano diminuite fino ad una trentina con la perdita di importanza del presidio.”

I marinai di leva erano sottoposti ad un addestramento tecnico? “No. In realtà svolgevano soltanto mansioni di manutenzione della caserma, mentre le funzioni di controllo degli strumenti tecnologici erano svolti dai graduati e da personale tecnico non militare.”

Quali erano i rapporti tra il personale della caserma e la comunità di Borgo Piave? “Assolutamente buoni, anzi direi ottimi. C’era cordialità, collaborazione, rispetto reciproco. Probabilmente ha giocato nel favorire rapporti positivi la simpatia e la cordialità del Comandante Capo Tizzoni, sempre aperto e disponibile a favorire i rapporti con la comunità. Molto spesso i ragazzini venivano accolti per giocare a calciobalilla con i giovani di leva o tra di loro. Il giorno di Santa Barbara, la protettrice della Marina Militare, si teneva un festeggiamento a cui si invitavano anche gli abitanti del Borgo. In caso di necessità i militari intervenivano per portare aiuto, magari anche solo per trasportare in città chi aveva problemi urgenti di salute. Poi si sono succeduti al comando capo Bolelli, Capo Quagliotti, Capo Siciliano, che hanno continuato a favorire un clima favorevole e una convivenza positiva.”

Clima favorevole che ha prodotto anche tanti matrimoni! “In caserma c’erano tanti bei ragazzoni, giovani e magari timidi, ma ci pensavano le ragazze del posto a farsi notare. Ci sono stati molti matrimoni: Biagio, Mimmo, Michele, Emilio, Rosario sono convolati a nozze stabilendo a Borgo Piave la loro residenza, anche se il servizio in Marina richiedeva periodi di imbarco o la loro presenza a Taranto o a Brindisi. Roberto, Giovanni dopo il servizio di leva hanno continuato a vivere nel Borgo, ma ci sono stati anche altri matrimoni tra militari, di cui non ricordo i nomi, e ragazze del luogo che poi si sono trasferiti altrove. Ricordo come prendevamo in giro Biagio perché stava sempre a guardare nella casa di fronte, dove abitava la ragazza che poi è diventata sua moglie: ‘Ti consumi il nervo ottico a forza di guardare!’ gli dicevamo.”

Anche tu sei rimasto a Borgo Piave “Anche se mia moglie è della mia zona di nascita abbiamo deciso di rimanere qui a Borgo Piave dopo la pensione, perché ci siamo trovati bene, perché ci piace. Addirittura i miei suoceri si sono trasferiti in una casa vicino alla nostra perché era un posto tranquillo e amavano la campagna, e la sorella di mia moglie si è sposata con una persona del Borgo. Una cosa che mi fa molto piacere è la simpatia e il rispetto che la gente del luogo mi ha accordato e continua ad accordarmi.”

(Interviene la signora Assunta, la moglie) “All’inizio ero un po’ sconcertata dal fatto che tutti mi chiamavano signora e poi mi davano del tu. Non capivo il perché, a Napoli si usa dare il ‘voi’ alle persone non di famiglia. Poi mi hanno spiegato che nel vostro dialetto non esiste il voi o il lei ma soltanto il tu, anche se ci si rivolge alla persona chiamandolo ‘Ssignuria’. Sto bene. Mi piace il luogo e la gente.” La breve intervista finisce con un buon caffè, napoletano ovviamente. (a cura di Ernesto Mola)

Le “Case della Marina” a Borgo Piave

Gli edifici di Borgo Piave denominati “Case della Marina” furono costruiti con il solo piano terra dall'Opera Nazionale per i Combattenti a partire dall'autunno del 1922 per ospitare i coloni ex combattenti che avrebbero dovuto coltivare i terreni che l'Opera aveva da poco confiscato, e soprattutto dissodarne di nuovi togliendo la macchia e le rocce affioranti (si trattava di zone presso le masserie Olmo, Sava, Janne, Cervalura non interessate da paludi).

La parte bassa dei lunghi caseggiati di Borgo Piave (le sopraelevazioni avverranno una decina di anni dopo), come le analoghe case lunghe e basse situate nel centro di Frigole, sono da attribuire all'Opera Combattenti non ancora commissariata dal Fascismo e quindi presentano una tipologia architettonica prefascista. Per altro sia la vasta piazza di Borgo Piave come la piccola piazzetta Alberti di Frigole sanno emanare con la loro tipicità un fascino e una curiosità del tutto particolari. La Marina occupò in maniera progressiva una parte notevole di quelle case a partire dalla seconda guerra mondiale fino al 2000. (Per inciso annotiamo l'importante risvolto sociale di quella presenza costituito dal consistente numero di matrimoni tra marinai e ragazze del luogo).

Negli anni Venti e Trenta l'Opera Combattenti ha realizzato una serie di altre costruzioni, principalmente case coloniche, utilizzando varie tipologie edilizie a tutt'oggi ben individuabili sul territorio (come lo sono le case costruite negli anni Cinquanta dall'Ente Riforma). Siamo dunque di fronte ad un patrimonio storico e architettonico che è peculiare, unico, di assoluto interesse, e che per questo non solo va salvaguardato fin nei dettagli della sua fisionomia (ogni suo utilizzo, presente e futuro, dovrà rispettare questa condizione), ma anche valorizzato.

Ormai da alcuni anni è in corso di realizzazione un progetto del Comune di Lecce, a cui il bene è stato traferito nel 2015, per la trasformazione delle “Case della Marina” in alloggi di Edilizia Residenziale Popolare. Il progetto salvaguarda il prospetto originario ricomponendo gli interni in appartamenti confortevoli e moderni per giovani coppie con figli. Ci saranno anche alcuni locali commerciali prospicienti la piazza e un parco giochi all'interno. Una buona occasione per rivitalizzare il borgo e ringiovanire la sua popolazione. (

A cura di _Antonio Passerini, curatore del libro storiografico: Una Comunità dalle molte radici)

LA PRINCIPESSA DELFINO: STORIA DEL PESCATORE MARCELLO E DELL’ACQUATINA

C'era una volta un pescatore di nome Marcello che abitava in un borgo con un lago vicino al mare. Il lago si chiamava Acquatina ed era ricco di pesci di tutti i tipi. Da ogni parte venivano pescatori attirati dalla ricchezza del lago. Vicino c'era un castello dove vivevano i principi Acquatina con il loro figlio. Un giorno, come sempre, Marcello andò a pescare nel lago ma le reti rimasero vuote. E così anche i giorni successivi. Il cielo da allora divenne grigio, senza sole. Marcello e gli altri pescatori erano disperati perché non sapevano cosa dare da mangiare alle loro famiglie, e tutti facevano la fame. Ogni giorno Marcello buttava le reti. Ogni giorno le ritirava vuota. Un giorno però sentì che la rete era pesante e la tirò su in barca: dentro c'era un piccolo delfino. In quel momento l'acqua del lago cominciò a ribollire. Uscì fuori dall'acqua la testa di un grande delfino che cominciò a parlare: "Pescatore, ti prego, libera mio figlio, lascialo vivere. Io sono la principessa Acquatina. Il principe mio marito è morto. La regina sua madre, una strega potente, è venuta nel castello e ha trasformato me e mio figlio in delfini perché gelosa e pazza di dolore per la morte del principe. Per la mia tristezza tutti i pesci hanno abbandonato il lago. Ti aiutarci a rompere l'incantesimo, affinché noi possiamo tornare nel castello ei pesci nel lago”. Marcello libererò il piccolo delfino e tornò a casa emozionato per l'incontro con la principessa. Pensava a come poteva aiutarla e rompere l'incantesimo. Mentre arrivava a casa vide uno stormo di undici anatre capoverde che si posarono proprio nel pantano dietro casa sua. Marcello si avvicinò e le anatre iniziarono a parlare: “Buon Marcello, se la principessa vuoi liberare ei pesci ritrovare, in una notte di luna piena nel lago dovrai andare ea mezzanotte la principessa dovrai baciare”. Marcello, che viveva con la vecchia madre, decise di fare quello che le anatre avevano detto. Così, in una notte di luna piena, a mezzanotte, e andò al centro del lago, dove aveva incontrato la principessa e suo figlio, e iniziò a chiamare: “Principessa!” “Principessa Delfino!” La principessa comparve, tirò fuori dall'acqua la sua testa di delfino, accanto a lei c'era il figlio. Il pescatore si buttò in acqua, nuotò verso di lei, e la baciò. Improvvisamente la principessa si trasformò in una bellissima fanciulla e il piccolo delfino in un bel bambino. Il lago si riempì di nuovo di pesci. La principessa felice e Marcello si innamorarono. Nel frattempo la regina madre cattiva era morta, e loro così si sposarono e andarono a vivere nel castello dell'Acquatina, e vissero per sempre felici e contenti.

Giammatteo: antica masseria “decapitata”

C'è una lunga strada che esce dal rione Santa Rosa di Lecce in direzione nord e che è denominata Via Giammatteo. Si tratta di un secolare tracciato, qua e là “raddrizzato”, che dalla città porta appunto alla antica masseria Giammatteo, nel circondario di Frigole e da lì alla masseria Solicara. Quella strada è percorsa il sabato e la domenica da frotte di Leccesi che vanno a rifornirsi di pane, pittule e altre leccornie al forno situato di fronte alla masseria e al vicino stabile, armonioso e compatto, dell'oleificio che ha compiuto da poco il secolo di vita. L'osservatore attento nota che Giammatteo non ha sopraelevazioni, elemento costruttivo che invece è comune alle masserie e che era abitazione temporanea, nei mesi più caldi o in occasione dei raccolti, dei facoltosi proprietari residenti in città. Ma anche Giammatteo fu per secoli una masseria “normale”, e lo fu fino al 1939, quando il 23 ottobre un terribile ciclone sconquassò l'edificio e rese pericolante la parte alta che fu abbattuta e non più ricostruita, lasciando così la costruzione “decapitata”. Fu invece ristrutturato tutto il piano terra, ampliando i fabbricati e la spaziosa corte interna attorno alla quale furono ricavate otto abitazioni per i coloni. La masseria è antica: è infatti del 1483 il primo documento che la cita come “massaria dello Pellitta”, insieme alla vicina Turriso-Stomeo, detta poi Giammatteo Vecchio, di cui oggi resta solo un brandello di muro. La denominazione Giammatteo (probabile nome o cognome dei proprietari di allora) appare per la prima volta nel 1625, quindi 400 anni fa giusti giusti. La masseria attraversò i secoli secondo ritmi di vita e di fatiche comuni a tutte le altre sue “consorelle”: vicende che potrebbero essere raccontate da alcuni possenti olivi, antichissimi, presenti nelle sue pertinenze. E veniamo al 1912: in un corposo documento dell'avvocato Nicola Bodini relativo a una vertenza del Comune di Leccce contro varie masserie, Giammatteo appare di proprietà di Leonardo, Teresa e Benedetto Mancarella ed è estesa circa 340 ettari. Ma già nel 1920 essa passa all'Opera Nazionale Combattenti (ONC) che diviene proprietà di 2.400 ettari di territorio che ha come centro di riferimento Frigole. Verso la metà degli anni Trenta l'ONC affida a mezzadria Giammatteo a Donato Corrado, originario di Supersano come la moglie Carmela Tronci, genitori, i due, di una numerosissima figliolanza che ha messo radici. Alla masseria l'ONC assegna il numero 19, che con l'Ente Riforma a partire dal 1956 diventerà il numero 214.