Le passioni di Nino Bruno

Nino ha affrontato il lavoro in campagna sempre col sorriso e con passione. Ancora oggi, a 96 anni, non riesce a distaccarsene. Ogni giorno, infatti, si dedica a piccoli lavori nei campi. Oltre all'amore per la terra, Nino ha un sogno nel cassetto che coltiva fin da ragazzo: il volo, gli aeroplani. Lo abbiamo intervistato, insieme alla moglie Teresa, nella loro graziosa casa, sotto lo sguardo vigile e affettuoso della famiglia. Il suo nome completo, Arcangelo Bruno, è importante e solenne, tanto che nel tempo è stato affettuosamente abbreviato in "Nino". «Sono arrivato qui a Frigole nel 1944. Avevo appena 16 anni», racconta. Mio padre è morto pochi anni dopo, nel '47.» Teresa, al suo fianco, aggiunge: «Ci siamo sposati nel 1963, dopo undici anni di fidanzamento. Ci conoscevamo da quando io ero una ragazzina. Ma a casa mia non erano contenuti all'inizio… così per un periodo mi fidanzai “per finta” con un ragazzo della polizia!» Lei è nata proprio a Borgo Piave, in una delle famiglie numerose del posto: «Eravamo 17 fratelli. Mio padre si chiamava Massaro e aveva ricevuto l'assegnazione della terra dalla riforma fondiaria. Con quella terra producevamo di tutto: olio, grano, ortaggi. eravamo anche due mucche, assegnate insieme ai campi. Ci davano tutto: attrezzi, animali, sementi...» Nino interviene: «Pagavamo ogni anno i bollettini, ma almeno non c'erano strozzinaggi o la mezzadria come altrove. Era una terra che potevi sentire tua. «E poi gli ulivi…», ricorda Nino, «quanti alberi ho potato! Anche adesso vado ancora nell'uliveto, piego la schiena, accendo il fuoco per bruciare le potature. Sono io a scegliere dove mettermi, in base al vento.» A scuola ci sono andati entrambi, sebbene in modo saltuario: Teresa frequentava a Borgo Piave fino alla terza elementare, mentre Nino ricorda la sua esperienza in una masseria sulla strada per San Donato, dove i maestri insegnavano ai figli dei contadini. E se poteva rinascere? Nino non ha dubbi: «Lavorerei ancora in campagna. Ma non da produttore, no. Meglio a stipendio, una giornata… meno responsabilità.»

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Alla scoperta del giunco: una pianta dalle mille risorse

Nel bacino costiero di Acquatina, a Frigole, cresce abbondante il Juncus acutus, noto come giunco ​​spinoso, pianta perenne tipica degli ambienti umidi e salmastri. L'etimologia del suo nome richiama l'idea di legame e punta, riflettendo le sue caratteristiche morfologiche. Sebbene in botanica il termine “giunco” indichi solo le specie del genere Juncus, nel linguaggio comune includono varie erbe palustri con fusti rigidi, utilizzate da secoli nell'artigianato locale per creare stuoie, cesti, corde e utensili impiegati in ambito agricolo, domestico e artigianale.

Il giunco ​​è una pianta erbacea perenne che può raggiungere un'altezza di circa 120 cm e cresce formando cespugli fitti e compatti, larghi fino a un metro e mezzo, difficili da attraversare. I suoi fusti, rigidi e cilindrici, sono di colore verde scuro e terminano con una punta. Le foglie, molto simili ai fusti sia per forma che per consistenza, sono dritte, appuntite, lunghe tra i 30 ei 50 cm, e avvolte alla base da guaine brevi, scure e lucide. I fiori, di piccole dimensioni e tonalità bruno-rossiccia, sono riuniti in un'infiorescenza globosa chiamata antele, che si origina da una brattea scura e appuntita, simile a una barchetta. Ogni fiore è composto da due serie di tepali e da stami con antere rossastre e ben evidenti. Il frutto è una capsula ovale, appuntita, che racchiude tre semi bruno-rossastri di forma fusiforme e dotati di endosperma. I fusti rappresentano la parte più utilizzata della pianta, in quanto adatti alla realizzazione di stuoie, cesti e altri oggetti intrecciati; vengono raccolti quando i frutti sono maturi, tra settembre e ottobre, momento in cui risultano più duri e resistenti, ma in base all'uso desiderato possono essere prelevati anche in fasi precedenti per ottenere maggiore flessibilità.

Oltre all'intreccio, in passato i fusti appuntiti venivano usati per tenere lontani gli uccelli dai vigneti o per infilzare pesci, funghi e altri prodotti venduti poi in mazzi chiamati serti.

Al giunco ​​sono state attribuite nel tempo anche proprietà magiche e curative: in alcune zone della Sardegna, ad esempio, è stato impiegato in riti scaramantici per proteggere i bambini, curare malattie o far scomparire i porri, attraverso gesti simbolici come saltare sopra un fusto, annodarlo e gettarlo in acqua, con l'obbligo di non tornare mai più nel luogo del rito.

In passato, le zone umide del Salento offrivano questa risorsa in abbondanza per l'artigianato locale, in particolare per la produzione di oggetti intrecciati a mano. Intorno a questa pratica si sviluppò una vera e propria filiera, in cui ogni fase richiedeva competenze specifiche. I primi a entrare in azione erano i raccoglitori, capaci nel riconoscere e selezionare le piante più adatte all'intreccio. Il materiale veniva poi ordinatamente legato in fascine e affidato ai trasportatori, che lo spostavano con carri fino ai luoghi di lavorazione. Una volta giunta a destinazione, le fibre vengono trattate per prepararle alla tessitura: lavate, essiccate e sbiancate, passavano di mano in mano fino agli artigiani, che con maestria le trasformavano in oggetti di uso quotidiano o decorativo.

Anche se la fase finale dell'intreccio era spesso affidata alle donne — giovani e anziane — il ruolo degli uomini restava centrale, soprattutto nei momenti iniziali del processo. All'alba o durante le ore più fresche della notte, raggiungevano le paludi a piedi, in bicicletta o con piccoli carretti per raccogliere il giunco. Rientravano a casa solo dopo lunghe ore di lavoro sotto il sole cocente. Una volta raccolto, il giunto doveva essere sottoposto a diverse lavorazioni per diventare più duttile. I passaggi principali comprendevano la bollitura, l'essiccazione (che durava circa due settimane, durante le quali il materiale acquisiva una tonalità gialla) e infine la zolfatura. Quest'ultima consisteva nell'appendere i giunchi umidi in ambienti chiusi, saturi dei vapori sprigionati dallo zolfo riscaldato in pentole: un trattamento che rendeva il materiale ancora più morbido e pronto per essere intrecciato. A quel punto intervenivano le mani esperte delle donne, sedute a terra su sacchi di iuta o coperte, che trascorrevano ore a intrecciare con straordinaria perizia. Ogni fase dell'intreccio — dalla base ai fianchi fino al bordo — richiedeva tecniche specifiche. Tra i prodotti più comuni che hanno preso forma da questo processo ricordiamo le sporte, le fiscelle ei panari: oggetti semplici, ma carichi di storia, fatica e sapienza artigiana.

A seconda del luogo, gli artigiani si specializzavano in produzioni specifiche: ad Acquarica, ad esempio, si realizzavano soprattutto "spurteddhe" (cesti), "cannizzi" (graticci), nasse da pesca, fischi e accessori per frantoi; a Bagnolo del Salento, invece, la produzione si concentrava su cordame, filati e oggetti per l'agricoltura e la pesca.

Oggi, la crisi dell'artigianato legato alla produzione del giunco ​​ha avuto gravi conseguenze sia economiche che ambientali, portando all'abbandono di zone umide di alto valore ecologico come il SIC Acquatina di Frigole. La perdita di questa tradizione ha comportato la scomparsa di un'intera filiera produttiva e di un patrimonio culturale unico.

Curiosamente, gli artigiani dell'intreccio svolgevano un ruolo importante nella gestione delle zone umide. Per poter raccogliere il materiale, essi pagavano un compenso ai proprietari dei terreni in cui si trovavano le paludi, contribuendo a mantenere l'equilibrio tra le diverse specie vegetali.

La “Casa dei cacciatori”

Pochi la conoscono, ma svetta ancora sul panorama del lago di Acquatina la costruzione edificata da Federico Libertini per ospitare i cacciatori.

Se dal centro di Frigole si prende, in direzione nord, la “strada dei poderi” (via Matteo Fiorini), poco prima di immettersi sulla litoranea presso il podere della famiglia Cardone si vede uno strano edificio a torre, con una scala esterna e un comignolo.

Perché quel nome? Sicuramente la costruzione è più vecchia della vicina casa poderale, che è una delle tante con la scala esterna rotondeggiate costruita dall’Opera Nazionale Combattenti nel 1937. Verosimile è invece l'ipotesi che fu Federico Libertini a erigerla poco dopo il 1870. E’ particolare la sua posizione: dal lato del mare, un tempo, era quasi lambita dal lago-stagno dell'Acquatina dai contorni irregolari, mentre verso l'interno da lì si stendeva la grande palude, anch'essa denominata “dei cacciatori”. Un luogo ideale per la caccia, perché spaziava su una zona umida che si perdeva a vista d’occhio.

Successivamente le grandiose bonifiche degli anni Trenta del Novecento hanno trasformato il volto al paesaggio: l'Acquatina fu ridotta e divenne lago-bacino, mentre la palude fu bonificata in fertili campagne.

La casa-torre ha un vano a piano terra. Una scala esterna porta al piano di sopra in un piccolo, rudimentale “soggiorno”, dove è possibile accendere il fuoco e da dove era possibile sparare alla cacciagione in tutte le direzioni. Un altro tratto di scala esterna sale sul tetto a terrazza leggermente ricurva. La visuale è vastissima.

Quella casa-torre è servita anche ad altro lungo il Novecento. Fu, per esempio, “ufficio pagamenti” degli operai addetti alla grande bonifica degli anni Trenta dell'Opera combattenti; in seguito fu punto d'appoggio per i raccoglitori di giunchi, di cui è ricca la zona, che provenivano per lo più dai “paesi del Capo”.

La Casa dei Cacciatori merita ancora la nostra attenzione perché è una traccia significativa dell’opera di Federico Libertini a Frigole.

Intervista al Sig. e alla Sig.ra Prontera

Gino Prontera e sua moglie Assunta Fazzi arrivarono a Frigole nel 1956, quando la Riforma Agraria portò molte famiglie a trasferirsi in queste terre. Erano ancora ragazzi quando si stabilirono qui con le loro famiglie d'origine, e nel 1965 si sposarono. Da allora, hanno costruito la loro vita attorno all’azienda agricola che ancora oggi gestiscono insieme ai figli, Emanuele e Pamela.

Ricorda bene quel periodo Gino, che all’epoca aveva solo 16 anni. “Quando siamo arrivati qui, il terreno era quasi tutto pascolo cespuglioso. Mio padre, Ippazio, ricevette in assegnazione tre ettari, ma non erano certo campi coltivabili: era terra incolta, con arbusti e cespugli, buona più che altro per il bestiame.” E infatti, agli inizi, la loro famiglia si dedicò soprattutto all’allevamento: due mucche, una cavalla e venti pecore furono il punto di partenza per costruire qualcosa di più grande. Con il tempo, lavorando senza sosta, riuscirono a rendere produttiva la terra e a investire in nuovi terreni. “Mio padre, partendo da nulla, è riuscito persino a comprare una casa a Lecce. All’epoca l’agricoltura aveva valore: il grano si raccoglieva con cura, le olive si raccoglievano a mano una a una perché l’olio aveva un prezzo importante. Oggi, invece, il grano lo diamo alle galline, l’olio non vale più niente e lavorare nei campi è sempre più difficile.”

Negli anni ’50 e ‘60, lavorare la terra significava affidarsi alla forza delle braccia e agli animali. “All’inizio si usava solo la zappa e si arava con i buoi o con la cavalla,” racconta Gino. “Il trattore è arrivato solo nel ’73. Fino ad allora, tutto il lavoro si faceva a mano.” Eppure, nonostante la fatica, si riusciva a vivere meglio di oggi. “Si lavorava duro, ma la terra dava il suo frutto. Oggi, se hai venti pecore, non ci campi. Una volta, invece, bastava per comprare casa, per mandare avanti la famiglia. C’era un equilibrio tra il lavoro nei campi e la vita quotidiana.”

Oggi Gino continua a coltivare la terra con passione. I suoi campi producono ortaggi, ma è particolarmente fiero delle sue cicorie, che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di "Re delle Cicorine". “Coltivo cicorie tenere e patate zuccherine. Ogni giorno ne raccolgo un po’ e le preparo per la vendita, come si faceva una volta.” Mentre ci accompagna nei suoi campi, mostra con orgoglio le cicorie fresche appena raccolte, spiegando il processo di pulizia e preparazione prima della consegna alle aziende di conservazione.

Un tempo il territorio di Frigole era molto diverso da oggi. “Quando siamo arrivati, si parlava di pascolo cespuglioso, perché qui gli animali pascolavano tra gli arbusti. Oggi invece si parla di macchia mediterranea, ma la differenza è che prima c’erano gli animali a mantenere questo equilibrio. Ora non più.” Gino ricorda anche un episodio poco noto: negli anni ‘50 furono fatte delle trivellazioni per cercare petrolio proprio a Frigole. “Alla fine, invece del petrolio, trovarono acqua. Acqua buona!”

La storia di Gino e della sua famiglia è la storia di tanti agricoltori che, con fatica e sacrificio, hanno trasformato un territorio difficile in una risorsa preziosa. “Ho sempre lavorato, anche in fabbrica, per poter investire nella terra. Con quello stipendio ho comprato un pezzo di terreno alla volta, fino a creare quello che abbiamo oggi.” Eppure, il mondo agricolo è cambiato. “Una volta si viveva bene con l’agricoltura, oggi invece è una lotta continua. Però, finché potrò, continuerò a coltivare la mia terra, perché è la mia vita.”

Tra ricordi, aneddoti e riflessioni sul valore della terra, questa intervista ci permette di riscoprire un pezzo importante della storia di Frigole. Buona visione!

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La bella addormentata... a Giammatteo - Il secolo di vita (e di “sonno”) del pregevole oleificio

Fa tristezza ogni volta che si passa davanti al “trappito” di Giammatteo vederlo chiuso, spento e muto. E non ci si abitua a questo, pur se succede ormai da più di trent'anni, essendo il 22 dicembre 1993 la data ufficiale della liquidazione della Cooperativa che lo gestiva (l'attività era già ferma da un po' di tempo; oggi la struttura è proprietà privata: quale futuro avrà?).

Cento anni fa, nella stagione 1924-25, il frantoio di Giammatteo macinava fino a 100 quintali di olive al giorno. Era affresco di fabbrica. L'aveva voluto l'Opera nazionale combattenti che da pochi anni, in due riprese (1920 per acquisto, 1921 per esproprio) era diventata proprietaria di 2383 ettari di territorio che aveva come centro la masseria Frigole (antichissima, ma con l'aspetto moderno di palazzina, voluta trent'anni prima dall'allora proprietario Federico Libertini).

L'oleificio era stato eretto come una delle prime strutture di un vastissimo e rivoluzionario piano (edilizio, di bonifiche, di gestione territoriale, sociale...), che l'Opera combattenti aveva intenzione di realizzare. Era stato ideato con un certo gusto architettonico tipico degli inizi del Novecento: infatti a Giammatteo si vede un edificio a due piani compatto sì, ma armonioso, che si combina bene con la vecchia masseria che gli sta appresso.

A proposito di Giammatteo, un'importante “curiosità” storica: nelle foto più vecchie che ritraggono trappito e masseria, questa appare con una parte centrale sopraelevata, come “di consueto” nelle masserie; ebbene, una terribile bufera, abbattutasi nella zona il 23 ottobre 1939, danneggiò pesantemente quella parte alta, che venne abbattuta perché pericolante e non più ricostruita; stessa sorte toccò alla cappella della masseria. Va aggiunto che Giammatteo, e quindi anche l'oleificio, sono posti in un punto viario che una volta era strategico, e cioè a lato dell'antichissima strada (anche oggi percorribile, pur se a tratti sconnessa) che collegava le masserie della zona: da lì, verso nord-ovest si va alla Solicara e via via alle altre; verso sudest si incontra Cervalura, poi c'era Janne, abbattuta poco prima del 1930, quindi Olmo, e via via le altre.

Oleificio modernissimo

Quando fu costruito, il trappito di Giammatteo era un “gioiello”, dotato di macchinari all'avanguardia. Si parlò di “frantoio moderno e razionale”, con cisterne di vetro e cemento, con cinque presse, due ad alta pressione (300 atmosfere), tre a bassa pressione (150 atmosfere), con motore a 12 cavalli vapore, una pompa per l'acqua, una dinamo per la luce... La struttura e l'attrezzatura erano dimensionate per “guardare avanti”: sarebbero cioè state in grado di soddisfare una richiesta ben più ampia della presente, e oltre a quella dell'Opera combattenti, che pur era in espansione. 

Gestito da una cooperativa “specializzata”

Con l'arrivo a Frigole dell'Ente Riforma Fondiaria (data “ufficiale” 22 luglio 1952), cambiarono in alcuni anni tantissime cose. Tra queste la gestione del trappito che fu affidato alla Cooperativa Oleificio Giammatteo. Era una cosiddetta “cooperativa specializzata”, cioè con l'attività svolta in un solo settore (quelle addette ai “servizi collettivi” erano dette “a scopo plurimo”). L'oleificio cooperativo fu attivo per alcuni decenni e vi lavorarono e lo diressero varie persone di Frigole. Fino alla sua (mesta) chiusura e lo scioglimento della cooperativa nel dicembre 1993, come detto sopra.

Storia di Federico

Tanto tempo fa, qui non c'erano case e campi, ma solo acqua.

C'era una volta un giovane di nome Federico... Quando il padre morì, gli lasciò delle terre tra Lecce e il mare. Ma queste terre erano paludose, piene d'acqua, e chi si avvicinava venne colpito da una malattia grave: la malaria, provocata dalla puntura di una zanzara che viveva lì.

Il fatto è che quelle terre erano maledette, sotto l'effetto dell'incantesimo di una strega. La strega abitava nella torre vicina, Torre Chianca, ed era così invidiosa delle terre rigogliose che vedeva accanto alle sue, che, per la rabbia, le era venuto un mal di schiena che l'aveva fatta diventare cattiva. E aveva mandato il maleficio che aveva trasformato quelle terre un tempo rigogliose in palude. “Vento del sud la terra sciacqua e coprila coprila tutta d'acqua!”.

Federico non sapeva come rompere il maleficio e sanare quelle terre, ma era un giovane buono e voleva che quelle terre potessero essere abitate e coltivate dalle persone. Un giorno, durante una tempesta, mentre camminava disperato nel bosco della Cervalura, incontra un vecchio mendicante incappucciato, steso per terra. Federico lo soccorre e gli dà da mangiare i fichi secchi che portava con sé. Il vecchio si toglie il cappuccio, svela di essere un mago, e dice: “Grazie per avermi aiutato. Ora io aiuterò te... Per rompere il maleficio della strega, bevi questa pozione: ti renderà invisibile. Prendi questi tre semi e piantali al confine della palude”.

Federico fece quello che gli aveva indicato il mago. I semi divennero alberi della carta, che con le loro radici succhiarono molta acqua e scavarono nella terra canali fino al mare. Federico vide con gioia la terra apparire sotto l'acqua che si asciugava.

Riapparvero le masserie. Vennero da ogni parte uomini, donne e bambini, che ricominciano ad abitare le case, a coltivare la terra, a piantare alberi. La terra di Federico tornò ad essere fertile e rigogliosa.

E la strega? La strega, consumata dalla rabbia e dall'invidia, abbandonò la torre. Nessuno ha mai saputo dove sia finita.

La Masseria Frigole era un casale già 10 secoli fa al tempo dei Normanni

Frigole è un nome antichissimo o meglio lo è nella sua forma primitiva di “Ficula”. Poi ci hanno pensato il tempo e qualche scrivano distratto a modificarlo, fino alla forma attuale.

Dunque “Ficula” appare come nome di un casale attorniato, già alcuni decenni dopo l'anno 1000, e ci sono di mezzo nientemeno che i Normanni. Infatti nel 1057 il loro duca di Lecce Rainaldo dona, con i suoi fratelli, alla chiesa leccese di Sant'Andrea (abbattuta a metà Seicento) varie campagne tra cui appunto le “terre di Ficula” (qualche storico contesta però quella data).

Nel 1300 il casale Ficula è testimoniato come proprietà del monastero dei Benedettini “neri”, che vanta la bellissima, antica chiesa dei santi Nicolò e Cataldo, oggi prestigiosa sede di università, a lato del cimitero di Lecce.

Nel 1494 Ficula passa ai Benedettini Olivetani con i quali diventa poco più avanti “masseria fortificata”, cioè con mura e massiccia torre di avvistamento e di difesa contro le temutissime scorrerie dei “Turchi” provenienti dal mare. Gli Olivetani detengono la proprietà di Frigole per più di tre secoli e cioè fino al 1807 quando Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, sopprime l'Ordine Olivetano e ne confisca i beni.

Dopo il 1850 figurano titolari della masseria i Teatini che hanno la loro sede a Lecce nel grandioso convento annesso alla splendida chiesa di S. Irene. Ma anche loro, che pur hanno apportato migliorie alla tenuta, subiscono la confisca verso la fine degli Sessanta.

Chi acquista poco dopo dal Demanio le terre delle masserie Frigole, Casa di Simini e Lamia? Un avvocato leccese di facoltosa e rinomata famiglia, sui 45 anni, sposato da poco e senza figli: Federico Libertini. Con lui inizia, verso il 1870, la “nuova storia” di Frigole. Da allora la masseria ha subito tante trasformazioni. Con la creazione ad un lato della masseria della nuova chiesa, la vecchia cappella è diventata prima una falegnameria poi un negozio. Gli appartamenti del Libertini sono stati suddivisi per ospitare i direttori delle bonifiche del '900. Adesso avrebbe bisogno di una radicale ristrutturazione, ma la burocrazia e le proprietà suddivise rendono difficile la sua rinascita.

Il lungo viaggio dell’acetosella gialla

In questo periodo, i vasti campi di Frigole si tingono di un giallo intenso, grazie alla fioritura dell'acetosella gialla, una pianta erbacea che ha trovato in questi terreni un habitat ideale. Conosciuta anche come trifoglio giallo o erba medica, questa specie, originaria del Sudafrica, si è diffusa rapidamente, diventando una presenza comune e, in certi casi, problematica, nei campi incolti, lungo i bordi delle strade e persino negli orti e nei terreni coltivati ​​del territorio.

L'Oxalis pes-caprae, meglio nota come acetosella gialla, si è diffusa nel Mediterraneo a partire dall'inizio del 1800, quando una botanica anglosassone la introdusse a Malta come pianta ornamentale. Questa donna, proveniente dalle colonie sudafricane del Capo, portò la pianta sull'isola, probabilmente attratta dalla sua bellezza e resistenza. La pianta finì nelle mani di Padre Giacinto, un frate botanico maltese, che la documentò nei suoi indici botanici e ne favorì la coltivazione in diversi punti dell'isola. Grazie alla sua capacità di riprodursi rapidamente attraverso i bulbi sotterranei, si diffondono in breve tempo nell'intero territorio maltese e nell'isola di Gozo. In seguito, la pianta si diffuse rapidamente verso altre regioni del Mediterraneo, in particolare in Sicilia e in Sardegna, dove trovò un ambiente favorevole alla sua crescita. Qui, l'Acetosella gialla si è insediata in modo aggressivo, soppiantando molte specie vegetali autoctone e diventando una delle infestanti più diffuse nell'Italia centro-meridionale.

L'acetosella gialla è una pianta erbacea perenne dai fiori giallo intenso e dalle foglie a forma di cuore, che ricordano lo zoccolo di una capra, da cui deriva il suo nome scientifico. Cresce tra i 5 ei 25 cm di altezza ed è dotata di piccoli bulbi sotterranei di forma ovoide, che permettono di diffondersi facilmente. La sua radice, detta contrattile, può spingere i bulbi fino a 20 cm di profondità, rendendo la pianta molto resistente. Le foglie, disposte a rosetta sulla sommità del fusto, hanno un lungo picciolo e sono composte da tre foglioline verdi, spesso con macchie bruno-porpora sulla parte superiore e più chiare e vellutate sotto. I fiori, penduli ea forma di imbuto, misurano circa 2,5-3,8 cm di diametro e hanno cinque petali gialli. Si trovano su sottili steli alti fino a 30 cm e sono raggruppati in infiorescenze con un massimo di 20 fiori.

L'acetosella gialla si riproduce quasi esclusivamente tramite i suoi bulbi, poiché i semi sono rari e sterili. Nei paesi anglosassoni, l'acetosella gialla è conosciuta anche con i nomi popolari di "bella addormentata" (bella addormentata) o "trifoglio dormiente". Questi nomi evocativi si sono pubblicati alla tendenza della pianta a richiudere le sue foglioline e infiorescenze durante le ore più calde della giornata o in caso di pioggia intensa. Questo comportamento, noto come nictinastia,è una strategia di sopravvivenza che permette alla pianta di proteggersi dalle condizioni climatiche avverse.

In passato, l'acetosella gialla era apprezzata per le sue proprietà antiscorbutiche. Grazie all'alto contenuto di vitamina C, veniva utilizzata per combattere questa malattia, soprattutto tra i marinai. Ancora oggi, le sue foglie acidule trovano impiego in alcune preparazioni culinarie, come insalate, ei bulbi vengono consumati arrostiti in alcune località. Tuttavia, è importante essere consapevoli dei potenziali rischi. Le foglie dell'acetosella gialla contengono ossalati, sostanze che, se ingerite in grandi quantità, possono risultare tossiche per animali e persone. Pertanto, è fondamentale prestare attenzione e moderare il consumo di questa pianta.

La diffusione incontrollata dell'acetosella gialla nei campi di Frigole e nelle aree circostanti potrebbe rappresentare una minaccia per la biodiversità locale e l'agricoltura. Le sue fitte colonie possono impedire la crescita di altre piante, sia autoctone che aliene, mentre nei terreni coltivati ​​riducono la resa dei raccolti. Questa specie si adatta con estrema facilità a diversi ambienti, colonizzando frutteti, vigne, orti, giardini e aree ruderali, ma anche praterie, arbusti e margini boschivi. Tollera vari tipi di suolo, compresi quelli sabbiosi e rocciosi, ma trova un limite alla sua espansione nelle temperature particolarmente rigide. La sua straordinaria capacità di diffusione dipende da un meccanismo riproduttivo esclusivamente vegetativo. In primavera, ogni pianta produce una ventina di bulbilli sotterranei che restano dormienti per tutta l'estate, germogliando poi in autunno. La fioritura avviene tra l'inverno e la primavera, al termine della quale la parte aerea scompare, mentre i bulbilli restano nel suolo, pronti a generare nuove piante. Questo ciclo, ripetuto anno dopo anno, assicura un'invasione progressiva e difficilmente controllabile. Inoltre, il rimescolamento del suolo dovuto ad attività agricole e urbane accelera ulteriormente la sua propagazione.

Contenere la diffusione dell’acetosella gialla risulta particolarmente difficile. ma studi recenti suggeriscono che la competizione con piante erbacee autoctone, in particolare quelle del genere Lolium, può limitarne la crescita. Questa scoperta apre la strada a strategie di contenimento basate sulla promozione della biodiversità locale, riducendo la necessità di interventi più invasivi. Favorire la presenza di specie erbacee competitive nei terreni a rischio potrebbe quindi rappresentare una soluzione sostenibile per controllare l’espansione, mitigandone gli effetti negativi sull’ecosistema e sull’agricoltura.

Torre Venneri: quando la storia si perde tra le rovine della decadenza

Torre Venneri, chiamata più comunemente Torre Veneri, è una delle tante torri che svettano sui punti strategici della nostra costa.

Il Salento, affacciato sul Mediterraneo, è da sempre stato un punto nevralgico per le rotte marittime e, di conseguenza, un obiettivo ambito da diverse potenze. La sua posizione strategica ha reso necessaria nel tempo la costruzione di un complesso sistema difensivo a protezione delle coste. Le origini di questo sistema risalgono all'epoca romana, ma è durante il dominio spagnolo, a partire dal XV secolo, che il sistema di fortificazioni ha subito un'importante evoluzione. Eventi come la caduta di Otranto nelle mani dei Turchi e la conquista di Gallipoli da parte dei Veneziani hanno accelerato la costruzione di torri costiere sempre più moderne ed efficaci. Queste torri, costruite principalmente in tufo, sono state le protagoniste della difesa del territorio, con la loro forma quadrangolare, i muri spessi e le caditoie che le rendevano fortezze inespugnabili. Posizionate strategicamente lungo la costa, disponevano di molteplici funzioni: proteggere dalle invasioni, trasmettere segnali di allarme e garantire il controllo delle terre circostanti.

Torre Veneri è menzionata in alcuni documenti e mappe dal XVII secolo anche con il nome di “Torre di Manasca” e, nel corso del tempo, ha subito i danni causati dagli agenti atmosferici e dall'erosione marina. Sebbene oggi si presenti in stato di rudere, questo antico baluardo costiero continua a raccontare, anche nel suo decadimento, la grande importanza strategica che Frigole e tutto il Salento hanno avuto nel corso dei secoli.

La costruzione di Torre Venneri risale probabilmente alla seconda metà del XVI secolo, durante il regno di Carlo V. Come altre torri costiere pugliesi, il suo scopo principale era quello di avvistare eventuali pericoli provenienti dal mare: i guardiani monitoravano l'orizzonte e trasmettevano segnali visivi – fumo di giorno e fuoco di notte – per allertare le strutture vicine. Torre Venneri era in collegamento visivo con Torre San Cataldo, a sud (oggi scomparsa), e con Torre Chianca, a nord. Secondo i documenti riportati da De Salve (2016), il maestro leccese Alessandro Saponaro ottenne l'incarico di costruire la torre il 19 agosto 1582, nella località “Terrae Venneris” (che diede il nome alla torre), dopo numerosi bandi pubblici e ribassi d'asta gestiti dalla Regia Camera per la costruzione di diverse torri costiere. Tuttavia, come evidenziato da Onofrio Pasanisi, i lavori non erano ancora terminati nel 1608, segno di probabili difficoltà economiche o organizzative dell'epoca. Questo sistema di torri, disposte a intervalli regolari lungo il litorale, assicurava una rapida comunicazione e una protezione efficace, collegando Torre Veneri con altre strutture come Torre Chianca e Torre Rinalda.

Torre Venneri si distingue per una struttura quadrangolare con un basamento scarpato e dimensioni particolarmente imponenti: ogni lato misura circa 11 metri. La torre presenta caratteristiche architettoniche che richiamano quelle delle torri dello Stato della Chiesa, combinate con elementi delle masserie fortificate dell’entroterra salentino. Al di sopra del toro marcapiano si sviluppa un parapetto verticale. La torre, nonostante i segni di rovina evidenti su tutti i lati, conserva particolari di grande interesse. Il lato rivolto verso l’entroterra mostra ciò che resta della porta originaria, un tempo dotata di un ponte levatoio, mentre il lato verso il mare è danneggiato soprattutto nella parte inferiore. Al piano terra si trovava una cisterna per la raccolta dell’acqua, mentre una scala in pietra conduceva al primo piano. Quest’ultimo, caratterizzato da volte a crociera, ospita ancora un antico camino e una scala che portava al terrazzo.

Oggi la torre si trova in uno stato di grave deterioramento e rischio di crollo, tanto che sono state installate strutture di supporto in ferro per evitarne il cedimento totale. Gli angoli della torre, in particolare, risultano fortemente compromessi.

Torre Venneri si trova in un tratto di litorale caratterizzato da sabbia fine e natura incontaminata. L'area circostante è impreziosita da dune sabbiose, macchia mediterranea e una vista mozzafiato sul mare Adriatico. Per raggiungerla, è necessario percorrere una stretta strada di campagna che dalla via principale conduce fino alla spiaggia.

Nel XX secolo, l'area di Torre Venneri è stata inclusa in un poligono militare utilizzato dall'Esercito Italiano per attività di addestramento e test balistici. Questa destinazione d'uso ha contribuito a preservare l'ambiente naturale, ma ha anche limitato l'accesso al pubblico. Negli ultimi anni, inoltre, la presenza del poligono è stata al centro di polemiche legate a presunto inquinamento ambientale per livelli di piombo e antimonio superiori alle soglie consentite in dieci punti del poligono.

Va inoltre sottolineato che Torre Venneri si trova all’interno di un Sito di Importanza Comunitaria (SIC), il che ne accresce il valore ecologico e la necessità di protezione. Questa situazione solleva interrogativi su come coniugare la funzione del poligono con la tutela dell’ambiente e della salute pubblica, considerando l’importanza storica e naturalistica del sito. Era stata accolta con favore la dichiarata volontà dell’Esercito Italiano di consentire l’accesso all’area marina almeno per alcuni mesi all’anno e di restaurare la torre costiera rendendola fruibile. Purtroppo alle parole non sono ancora seguiti i fatti e Torre Venneri continua a deteriorarsi mentre l’area circostante resta interdetta.

La Tiaula

La fiaba La Tiaula rappresenta un dono che i bambini di Frigole hanno fatto alla loro comunità, un luogo dove le famiglie, arrivate da ogni angolo del Salento, hanno costruito una nuova casa, portando con sé tradizioni e dialetti diversi. Un mosaico di cultura, unito dalla forza di bonificare le terre e dalla ricchezza dei loro prodotti, come la patata di Frigole. Ma cosa succede quando tante storie si incontrano? Nasce qualcosa di unico, qualcosa che parla di radici, di ricordi, di legami. Ed è proprio questo che i bambini di Frigole hanno saputo fare: ascoltare i racconti dei nonni, custodi di un passato prezioso, e trasformarli in fiabe. Fiabe piene di magia, di personaggi fantastici, ma anche di frammenti di vita vera, di luoghi cari, di tradizioni che profumano di buono. Come la patata, che con la sua semplicità e il suo sapore autentico, è diventata il simbolo di una comunità operosa. Le Fiabe di Frigole sono un ponte tra generazioni, un modo per non dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Ma sono anche un invito a costruire insieme il futuro, a valorizzare le nostre diversità, a fare tesoro delle nostre radici. Perché una comunità unita è una comunità che sa guardare avanti, che non ha paura di sognare, che crede nel potere della collaborazione.

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Testo integrale

C'era una volta una coppia di contadini che si amavano molto e fecero sei figli. Un giorno il marito dovette partire per la guerra e non tornò. La donna, che si chiamava Grazia, credendolo morto, si disperò perché non sapeva come fare a crescere i figli da sola. Una notte sognò un serpente giallo, lunghissimo, con macchie bianche e con le cornicchia. La donna si spaventò e disse al serpente: "Serpentello, che devo fare? Dimmelo, dimmelo, non mi lasciare." Il serpente parlò e disse: "Domani mattina all'alba prendi quella strada, vai sotto gli ulivi, alla pietrafitta del grifone. Là troverai un cavallo nero, prendilo e usalo per arare la terra." La Grazia si svegliò e pensò che fosse il marito a venirle in sogno come un serpente muta-forma. Così fece quello che il serpente le aveva detto. Andò fino alla pietrafitta del grifone, trovò il cavallo e lo portò a casa. Ma il cavallo era alto e magro, non adatto a tirare l'aratro e il carro, perché scappava sempre. La Grazia lo cavalcava per stancarlo, ma non riusciva comunque a lavorare la terra. Un giorno prese il frustino per picchiarlo, ma il cavallo, che era un cavallo magico, cominciò a parlare e disse: "Fermati, Grazia. Se tu non mi fai del male, io ti posso aiutare. Ti dono delle cose magiche. Dentro la mia sella ci sono dei pezzettini di batata. Piantali e vedrai." La donna fece quello che il cavallo le aveva detto. Iniziò a coltivare una patata dal sapore dolce, mai vista prima, buonissima, e fece fortuna perché tutti volevano comprare la patata zuccherina. La Grazia se ne andava sempre in giro in groppa al suo cavallo magico e per questo tutti la chiamavano La Tiaula. Un giorno, mentre stava nell'uliveto, le sembrò di vedere il serpente con le cornicchia. Tornò a casa e trovò il marito, che si era salvato dalla guerra e dopo un lungo cammino era tornato.

E vissero per sempre felici e contenti.

Larga è la foglia, stretta è la via, dite la vostra che ho detto la mia.