Frigole e la sua storia scolpita nella pietra

Frigole è una terra che parla attraverso il suo paesaggio. Ogni angolo, ogni roccia, ogni muretto racconta la storia di un legame indissolubile tra l'uomo e la natura.

Tra gli elementi che hanno plasmato maggiormente il territorio, la pietra occupa senza dubbio un posto di rilievo, simboleggiando la fatica e la sapienza di generazioni di contadini che hanno modellato la terra, rendendola fertile e accogliente.

Il paesaggio frigolino, così come quello di tutto il Salento, è segnato da un substrato calcareo che affiora in tutta la pianura. I contadini, fin dai tempi antichi, hanno dovuto affrontare una difficoltà: frantumare le rocce per rendere il terreno coltivabile. Ogni pietra estratta, però, non veniva sprecata, ma utilizzata come risorsa preziosa. Così, i muretti a secco, oggi simbolo del paesaggio agrario del Salento, sono nati da un lavoro paziente e continuo, che ha visto le pietre trasformarsi in delimitazioni di terreni, in rifugi per il bestiame, in piattaforme per essiccare i frutti della terra. Questa tradizione di costruire senza l'uso di malta, ma solo affidandosi al peso e alla forma delle pietre, ha creato una rete fittissima di muretti che rivelano e proteggono i terreni, creando un paesaggio unico e inconfondibile. La tecnica dei muretti a secco è la testimonianza di un'ingegnosità millenaria che ha permesso alla comunità salentina di adattarsi e prosperare in armonia con la natura. Oltre alla loro funzione pratica e simbolica, i muretti a secco rappresentano anche un elemento fondamentale per l'ecosistema locale. Essi sono infatti rifugi ideali per rettilinei, insetti e piccole creature, contribuendo così alla biodiversità del territorio.

Un altro esempio straordinario dell'ingegno contadino è la tecnica della pseudo-cupola, utilizzata nelle costruzioni a secco. A differenza delle vere cupole, che si reggono grazie alla spinta dei conci, le coperture di queste costruzioni si sovrappongono le pietre in modo che ciascuna si sporga leggermente dalla precedente, creando una chiusura stabile del vano. Questo metodo, pur nella sua semplicità, è una vera e propria arte che testimonia la sapienza nella gestione della pietra e delle risorse naturali.

Nel territorio di Frigole, tuttavia, la pietra riveste anche un altro significato, legato alla preistoria. Le "pietrefitte", menhir che si trovavano un tempo nelle campagne della zona, sono uno degli enigmi più affascinanti del territorio. Segnalate dall'archeologo Giuseppe Palumbo, queste imponenti pietre conficcate nel terreno erano testimonianze di una presenza umana che risale a migliaia di anni fa. La loro altezza media di circa 4 metri e la disposizione orientata da nord a sud erano caratteristiche di un'architettura megalitica che si ritrova in molte altre zone d'Europa. Le pietrefitte di Frigole erano collocate in luoghi significativi, come la masseria Basciucco e un podere appartenente alla famiglia Taurino. Oggi, però, non sono più visibili nelle loro posizioni originali. Nonostante il mistero che ancora le circonda, gli studiosi ipotizzano che queste pietre abbiano una funzione religiosa, forse come segni di culto verso divinità preistoriche. Giuseppe Palumbo, infatti, sosteneva che i menhir fossero eretti per scopi rituali, in un periodo che va dal Neolitico all'Età del Bronzo (circa 5.000-7.000 anni fa). La loro conservazione, però, è stata favorita anche dall'opera del Cristianesimo, che le trasformò in crociere, luoghi di culto con croci scolpite, che ne hanno garantito la protezione nel corso dei secoli.

Le pietrefitte di Frigole, insieme ai muretti a secco, sono testimonianze di un passato remoto che continua a vivere nel presente. La loro presenza ci parla di un paesaggio modellato dall'uomo, ma anche di un rispetto profondo per la natura. Sebbene molte di queste strutture siano andate perdute nel tempo, quelle che sono sopravvissute ci invitano a riflettere sul legame profondo che esiste tra la terra, l'uomo e la cultura del territorio. Oggi, conservare questo patrimonio significa non solo proteggere un'eredità culturale, ma anche mantenere l'equilibrio ecologico che ha (quasi) sempre caratterizzato il luogo. La pietra, nelle sue molteplici forme, continua a raccontare la storia di un popolo che ha saputo vivere in sintonia con la natura, un'eredità che appartiene a tutti noi e che merita di essere valorizzata e trasmessa alle generazioni future.

Frigole a tavola: la storia della trattoria Da Ciccio

La trattoria Ciccio è una istituzione a Frigole.

Nata nel 1962 per offrire ai cacciatori della riserva di Frigole un luogo per assaporare i prodotti locali si è poi consolidata negli anni come trattoria e ristorante della tradizione. Ciccio era il diminutivo di Francesco Nigro, assegnatario nel 1956 del podere 244, tutt'ora sede ristrutturata del ristorante. Ciccio gestì il ristorante fino al 1978 assieme alla moglie Maria Addolorata Santoro che ne era la cuoca. Una cucina semplice di tradizione che attrae a Frigole tante famiglie dalla città.

https://www.youtube.com/watch?v=Z84mE89H9RI&t=3s

LA MASSERIA BASCIUCCO

Pochi la conoscono. E' un esempio tipico di masseria fortificata del Salento, provvista di torre e ponte levatoio risalente al XVI secolo che fa parte della serie di costruzioni che a partire dal 1500 venivano erette per contrastare le invasioni di turchi e pirati, che imperversavano allora nel mar mediterraneo .

Versa oggi in completo stato di abbandono e in condizioni statiche mediocri, ma vale la pena conoscerla e magari ammirarla in una delle passeggiate organizzate dall'Ecomuseo delle Bonifiche di Frigole. La torre presenta a piano terra un unico locale con la volta a botte fornita di una serie di mangiatoie per i bovini e per i cavalli, mentre al piano superiore due vani di dimensione differente erano l'abitazione del massaro. II terzo vano, sovrastante l'androne-rimessa, è di epoca più recente. La scala per il piano superiore era originariamente disposta perpendicolarmente alla muratura ed era munita di ponte levatoio. Un sistema di caditoie difendeva gli ingressi e le finestre, e fungeva anche da deterrente in caso di assalto. All'interno sulla serie di arcate è presente un ballatoio che favorisce l'accesso al piano superiore e ai locali attigui.

L'edificio si continua poi in alte mura che abbracciano un esteso cortile; uno dei lunghissimi lati del cortile ospitava numerosi fabbricati tra cui soprattutto stalle, ovili, un pozzo con varie pile, cisterne, ma anche abitazioni per i contadini. C'era anche una piccola cappella databile al XVII secolo. L'altro lato della masseria presenta un grande portale d'accesso munito di caditoia.

All'epoca il territorio del litorale leccese appariva “a macchia di leopardo”, dove i terreni coltivati ​​e gli oliveti erano come piccole isole circondate da fitta e vastissima macchia, ampia zona paludose, boschi, pietrame, stagni.

Baciucco nel 1600 circa fa parte del feudo del Vescovo di Lecce, e per certo, dal 1622 al 1755 ne sono proprietari i Padri Carmelitani Scalzi di Lecce, insieme alle masserie Pomponio e Palazze; le tre masserie contavano insieme un totale di 113 capi di bestiame, terre seminative pari a 110 tomoli e terre macchiose per 400 tomoli (un tomolo di terreno corrispondeva a 2.143 m2). L'edificio-torre, la schiera di rustici, i ruderi della cappella e il portale col camminamento di ronda sovrastante sono tutti elementi che testimoniano l'organizzazione sociale ed economica dell'organismo masserizio che, all'interno dell'ampio cortile trovava modo di esprimersi in termini di vita e di lavoro.

Databile alla prima meta del XVI secolo, fu donata nel 1622 da Giovan Battista di Marsilio Maramonte ai Padri Carmelitani di SM di Costantinopoli (esiste l'atto notarile). Agli inizi del '900 la proprietà di Baciucco è della duchessa di Bagnara Lucia Saluzzo, proprietaria anche delle masserie Pomponio e Palazze, per un totale di quasi 1000 ettari di territorio. La duchessa Saluzzo è l'ultima proprietaria della masseria, perché nel 1903, per portare avanti il ​​grande progetto di bonifica da parte dello Stato che interessò tutta la zona del litorale leccese, l'ingegnere del Genio Civile di Lecce notifica l'atto di esproprio con relativi indennizzi.

Una testimonianza attuale della vita a Baciucco negli anni del secondo dopoguerra ce la offre Ada Quito, appartenente a una proveniente da Acquarica di Lecce, che nel 1941 si trasferisce a Frigole, dapprima alla masseria Le Palazze e dal 1943 a Basciucco, dove restarono per una ventina d'anni. Ada, che ora ha 93 anni, ci racconta come si svolgeva la vita di allora. Si lavorava da mattina a sera, si viveva con poco, semplicemente, e anche la scuola per molti era ancora un miraggio. Sono tempi relativamente recenti, ma che a noi sembrano lontanissimi. Ascoltiamola!

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I TEMPI DURI DELLA BONIFICA

“In campagna c'era tanto lavoro e si faceva tanta fatica. Si produceva grano, fagioli, pomodori, fave, e altre cose, ma tutto era a mezzadria con l'Opera Combattenti e allora noi, per sopravvivere, cercavamo di nascondere il più possibile almeno una piccola parte dei prodotti perché i fattori dell'Opera Combattenti controllavano tutto quello che avevamo. Li nascondevamo per esempio nella cassa del corredo: sul fondo si mettevano i fagioli, sopra si metteva un po' di biancheria. Oppure pulivamo per bene la mangiatoia e con scarpe chiodate pestavamo 'zumpando' un po' di oliva o un po' di grano”.

E' la testimonianza di Antonietta Gismonda Stridi, resa al periodico del CUFRILL “Voci da Frigole e dal Litorale Leccese” e pubblicato alcuni anni fa sul n. 7 della rivista.

Antonietta era nata nel popoloso paese di San Pancrazio Salentino, dove aveva trascorso infanzia e adolescenza e all'età di 23 anni si era trasferita a Frigole al seguito della sua famiglia d'origine. Era il 1938 e al padre Vito era stato assegnato il podere n. 45, Sulla litoranea. Poco dopo Antonietta sposò Pasquale Negro, originario di Erchie, anche lui assegnatario di un podere a Frigole. Qui ha vissuto per 77 anni raggiungendo la veneranda età di 103 anni. Una vita grama all'inizio fatta di sacrifici e di bisogno, molto diversa da quella del paese. La città di Lecce era distante per quei tempi, la nuova realtà era fatta di casa e campagna, dove anche le donne lavoravano per l'intera giornata, oltre ad accudire i figli. A San Pancrazio Antonietta aveva lavorato in una farmacia e le sue mani delicate non erano adatte a lavorare di zappa e rastrello, non sapeva distinguere le erbe cattive da togliere da quelle commestibili. Per questo le affidavano lavori più “leggeri” come accudire gli animali e tagliare l'erba. Antonietta ci racconta ancora: ” In campagna bisognava andarci sempre e, se c'erano bambini piccoli, venivano portati sui campi anche loro. Anche a casa c'era da lavorare tanto e allora i bambini, quando ancora non camminavano, venivano fasciati 'tondi tondi' e messi dentro la 'capasa' in piedi, così si potevano tenere d'occhio mentre si sbrigavano le interminabili faccende di casa .”

Nel dopoguerra era ancora endemica la malaria a Frigole. Tutti, piccoli e grandi, prendevano le pastigliette gialle del chinino per combatterla. Poi è arrivato il DDT per risolvere il problema, ma forse crearne altri. Altro elemento di disagio era la mancanza di luce elettrica nei poderi, mentre già dal 1933 l'elettrodotto portava l'energia all'idrovora, alla sede dell'Opera e poi alle case della Marina Militare. “Per fare luce nelle case poderali si usavano lumi a petrolio e candele - ha raccontato Antonietta - fino agli anni '60, quando furono portati i pali della luce anche in campagna” .

La vita era difficile insomma nei primi anni della bonifica. Lavoro duro e molti disagi ma con la speranza di una vita migliore per se e per i figli. Antonietta ora non c'è più, ma è ancora vivo il ricordo di una donna forte e ostinata: una donna della bonifica.

Il Cormorano all'Acquatina: sentinella della natura o minaccia per i pescatori?

L'Acquatina, gioiello naturalistico del Salento, ha visto negli ultimi decenni l'arrivo di un nuovo inquilino: il cormorano. Questo uccello acquatico, con il suo piumaggio lucente e il becco adunco, è diventato un volto familiare lungo le rive di questo bacino costiero. Ma chi è esattamente questo nuovo arrivato e quale impatto ha sul delicato equilibrio dell'ecosistema locale?

Il cormorano è facilmente riconoscibile per il suo corpo affusolato di colore nero, impreziosito da riflessi blu-verdi sul piumaggio e sfumature bronzee sulle ali. Nel periodo riproduttivo, sfoggia due macchie bianche, una sulla coscia e l'altra alla base del becco. Quest'ultimo, a forma di uncino, insieme al collo sinuoso a forma di "S", lo rende un predatore abilissimo. Si nutre quasi esclusivamente di pesci, che cattura immergendosi con agilità e nuotando anche in profondità.

Si tratta di un uccello di grandi dimensioni che può raggiungere una lunghezza di un metro, un'apertura alare compresa tra 1,3 e 1,6 metri e un peso che varia tra 1,6 e 2,7 chilogrammi.

Il cormorano è una specie cosmopolita, diffusa in tutti i continenti. Predilige ambienti acquatici, sia salati che dolci, come laghi, lagune, delta, fiumi e paludi, soprattutto se riparati e con acque poco profonde. In Europa occidentale frequenta prevalentemente le coste marine, mentre in Europa orientale e meridionale si concentra maggiormente lungo le acque interne. Nidifica in colonie, scegliendo pareti rocciose, isolette, boschi fitti, canneti o aree palustri. I nidi vengono costruiti su alberi, arbusti o su vegetazione bassa e possono essere rioccupati nella stessa stagione da altre coppie.

In Italia, il cormorano è sedentario, migratore regolare e nidificante, dimostrando una notevole flessibilità nel suo comportamento: mentre un tempo era prevalentemente una specie svernante, negli ultimi decenni ha iniziato a nidificare stabilmente, con un'espansione dell'areale che continua tuttora.

L'insediamento nell'Acquatina, così come in altre zone umide della Penisola, è un chiaro esempio di questa dinamica, legata a fattori come i cambiamenti climatici e la disponibilità di risorse alimentari.

Il cormorano gode attualmente di uno stato di conservazione favorevole sia in Italia che a livello europeo. Nel nostro Paese, le colonie nidificanti sono in aumento, soprattutto nelle regioni settentrionali, dove trovano habitat adatti come fiumi e zone umide. Nonostante questa tendenza positiva a livello nazionale, alcune popolazioni locali, come quelle sarde, mostrano un decremento. I censimenti invernali confermano la diffusione di questa specie. Tuttavia, il suo successo suscita non poche preoccupazioni nel settore della pesca. La dieta ittiofaga del cormorano lo pone in competizione con i pescatori, generando conflitti e portando, in alcune aree, a pratiche di controllo della popolazione come l'abbattimento o la distruzione dei nidi.

È importante sottolineare che esistono metodi di gestione più sostenibili e meno cruenti, come il disturbo controllato o la modificazione dell'habitat, che possono ridurre l'impatto dei cormorani sulle attività umane senza compromettere la loro conservazione.

L'Acquatina, con il suo nuovo inquilino, è un laboratorio naturale dove studiare le dinamiche delle popolazioni e le interazioni tra specie. Il cormorano, con la sua capacità di adattarsi ad ambienti diversi, rappresenta un indicatore sensibile dei cambiamenti climatici e dell'impatto delle attività umane. Monitorare la sua presenza e il suo comportamento nel tempo sarà fondamentale per comprendere meglio i processi ecologici in gioco e per prendere decisioni informate sulla gestione di questo prezioso ecosistema.

Con Antonio Sansone l'Azienda agraria di Frigole diventa un modello per il Meridione

Il 1907 e il 1920 sono due date fondamentali nella storia di Frigole e sono legati a un personaggio di rilievo nazionale: Antonio Sansone. Partiamo dal 1920. In quell'anno arrivò a Frigole l'Opera Nazionale Combattenti (ONC) ed ebbe inizio per quel territorio una “nuova vita”, quella che diede l'impronta allo sviluppo dei decenni seguenti. Se infatti fino ad allora esistevano solo masserie su quell'ampia fascia di terra lungo il Mar Adriatico situata nel comune di Lecce, l'Opera diede avvio ad una radicale trasformazione, anche sociale, dei 2800 ettari ottenuti mediante acquisto dai Fondi Rustici o esproprio.

Dietro a questo grandioso progetto c'era proprio lui, Sansone. Nato a Laurenzana in Basilicata 55 anni prima, dal 1919 era direttore nazionale dell'ONC. Laureato in agronomia alla celebre Scuola Superiore di Portici, Napoli, Sansone è considerato dagli storici uno dei primi manager italiani del settore agricolo, avendovi operato con idee moderne e con forte sensibilità sociale in varie regioni della penisola.

Ma non fu un “caso” che l'Opera investì in quell'angolo di Salento enormi capitali (pensiamo per esempio alla trasformazione del vasto lago-stagno dell'Aquatina in bacino, quello attuale, un intervento che richiese tre anni di lavoro, potenti macchinari e migliaia di operai). Sansone infatti conosceva molto bene il territorio di Frigole perché vi aveva operato dal 1907 a tutto il 1911 in qualità di direttore dei Fondi Rustici, società proprietaria di quell'Azienda agraria, oltre che di tante altre nel Meridione. Di quell'esperienza aveva tracciato sulla rivista nazionale dei Fondi stesse relazioni annuali che dalla cautela iniziale erano diventate in brevissimo tempo un'esaltazione del progetto sotto ogni punto di vista (agrario, sociale, sanitario, sindacale...), tracciando una sorta di manifesto per l'agricoltura meridionale. “... cambiate i vecchi ed imperfetti aratri, arricchite i terreni di perfosfato, estendete le leguminose da foraggio... dissodate macchie, rompete croste, bonificate pantani con pozzi assorbenti... costruito case, stalle, magazzini e ricoveri... affrontare il problema della malaria... creare tutto un mondo nuovo...”.

Torniamo al 1920 per dire che Sansone fu referente dei grandiosi programmi di rinnovamento fino all'aprile 1923 quando fu estromesso dalla direzione dell'Opera dai fascisti, pochi mesi dopo il loro arrivo al potere. Morì improvvisamente alla fine di settembre di quello stesso 1923.

Sui “Fondi Rustici” importanti sono le pubblicazioni di Anna Lucia Denitto.

Borgo Piave: un forno, una comunità, una storia

Il profumo del pane appena sfornato, il calore del forno, il vociare della gente: un'atmosfera che riporta a tempi lontani, quando la vita scorreva al ritmo dei lavori nei campi e il forno comunitario era il cuore pulsante di ogni borgo.

Nel cuore del Salento, immerso tra gli ulivi colpiti dalla xylella e le distese dei campi, sorge Borgo Piave. Nato all'inizio del Novecento come ambizioso progetto di colonizzazione, questo piccolo borgo ha visto la sua storia intrecciarsi con quella di un forno, simbolo di una comunità unita e laboriosa.

Costruito nei primi anni Venti dall'Opera Nazionale Combattenti, il forno di Borgo Piave (ce n'era anche un altro nel borgo) oggi era più di un semplice luogo dove cuocere il pane. Si trattava di un modulo architettonico caratteristico, coperto da un tetto e dotato di un comignolo che svettava verso il cielo. Il forno, costruito in muratura con un piano di cottura in mattoni e chiuso da uno sportello di ferro, era preceduto da un vano coperto, dove gli abitanti preparavano e appoggiavano le cose da cuocere. Era il centro nevralgico della comunità, un luogo di condivisione di gioie e fatiche, e di trasmissione delle tradizioni. Le donne del borgo, con le loro mani esperte, impastavano la farina, creando pani di diverse forme e dimensioni, mentre spesso erano gli uomini che si occupavano di accendere il fuoco e di regolare la temperatura del forno. La legna necessaria alla cottura era portata dalle famiglie stesse a turno, che si accordavano per cuocere il pane in un giorno prestabilito. Una volta ass le fascine e scaldato il piano di cottura, le braci venivano sistemate ai lati per lasciare spazio agli impasti, e il piano veniva accuratamente pulito dai residui di brace per evitare che alterassero il sapore del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva pazientemente il tempo della cottura.

Anche intorno al forno si svolgeva la vita del borgo, la cui storia è legata a doppio filo con quella dei progetti di bonifica del territorio. Fu infatti l'Opera Nazionale Combattenti che nel 1921, prima quindi dell'epoca fascista, avviò la costruzione del borgo e dei forni per dare una casa e alcuni servizi ai contadini, agli operai della bonifica e poi ai coloni provenienti da tutto il Salento. Con la bonifica, oltre a mettere a frutto terreni paludosi e improduttivi, si avviava anche una dura lotta alla malaria, una malattia che affliggeva da secoli le popolazioni rurali. Nel periodo fascista poi si radicò anche una forte componente ideologica: la bonifica e la coltivazione di nuovi terreni veniva considerata simbolo dell'“autarchia”, della forza e della determinazione del regime. I veterani di guerra, considerati eroi nazionali, furono i primi destinatari delle terre bonificate, trasformandoli in pionieri di una nuova ruralità. Il borgo, infatti, sorse come luogo dove i combattenti della Grande Guerra possono trovare una nuova casa e ricominciare una vita. Il forno, in questo contesto, rappresenta un elemento fondamentale per l'autosufficienza della comunità. Un servizio messo a disposizione delle famiglie, in un periodo in cui i trasporti verso la città erano difficili e irregolari e non potevano garantire l'approvazione del pane.

Borgo Piave, così fu chiamato, prendeva il nome dal fiume che scorre tra Friuli e Veneto, luogo simbolo della resistenza italiana durante la Prima Guerra Mondiale di fronte al nemico. L'ONC, giunta a Frigole nel 1920 sotto la guida di Antonio Sansone, si impegnò da subito nella costruzione di infrastrutture per migliorare le condizioni di vita dei contadini e degli operai. Non si trattava solo di edifici residenziali per i lavoratori e le loro famiglie, ma di un vero e proprio sistema di supporto alla comunità: vennero realizzati quindi il forno sociale, magazzini, pozzi. Dopo la realizzazione dei primi edifici nel 1922, nel 1930 furono inaugurate sette case coloniche, mentre nel 1933 fu aperta una scuola elementare. Successivamente, nel 1935, le abitazioni originali vennero sopraelevate per accogliere nuove famiglie e intorno al 1940 alcune di queste strutture ospitarono i marinai del presidio della Marina Militare, tanto che il complesso prese il soprannome di “case della Marina”, usato ancora oggi.

Con l'arrivo dell'Ente Riforma negli anni '50, il borgo continuò a crescere con la costruzione di nuove case e della chiesa, realizzata nel 1957 grazie all'impegno della comunità e di don Fortunato Pezzuto. Negli anni successivi, Borgo Piave ha continuato subito profonde trasformazioni.

Negli anni sessanta è iniziato il progressivo abbandono delle attività agricole e di conseguenza lo spopolamento del borgo. Lo sviluppo industriale, l'urbanizzazione ei cambiamenti nelle abitudini delle persone hanno portato al disuso del forno comunitario, che è stato gradualmente abbandonato. Tuttavia, il ricordo di quel luogo e delle tradizioni ad esso legato continua a vivere nel cuore degli abitanti del borgo.

Oggi, Borgo Piave si trova a dover affrontare le sfide della contemporaneità, cercando di valorizzare il proprio patrimonio storico e culturale e di promuovere un turismo sostenibile. Il forno comunitario, in questo contesto, può rappresentare un punto di partenza per riscoprire le proprie radici e ricreare un senso di comunità. In un mondo sempre più frenetico e individualista, riscoprire il valore dei luoghi e delle relazioni è fondamentale. Il forno di Borgo Piave ci invita così a riflettere sul nostro passato ea costruire un futuro più sostenibile e umano.

Bosco della Cervalora

Dalla foresta ai campi: il volto del Salento che cambia

Chi avrebbe mai immaginato che nel cuore del Salento, tra Otranto e Brindisi, si estendesse un tempo una vasta foresta? La Foresta di Lecce, così si chiamava, copriva un'ampia area; un manto verde che contrastava nettamente con l'arido paesaggio che oggi caratterizza la nostra regione. Di quella rigogliosa distesa, restano ancora solo piccoli frammenti, come il Bosco di Cervalora, una lecceta spontanea nascosta lungo la strada che porta a Frigole. La sua vegetazione è molto simile a quella del Bosco di Rauccio, ed è gestita con il metodo del "ceduo", che prevede il taglio periodico degli alberi per favorirne la ricrescita. Entrambi i boschi rappresentano ciò che resta dell'antica foresta medievale tra Lecce e il mare e hanno un grande valore storico e scientifico, supportandoci a immaginare la vegetazione e quindi anche il paesaggio originario della zona.

L'aspetto attuale del territorio, molto semplificato, è cambiato intorno al Settecento, quando l'impatto antropico è aumentato e l'economia locale si è focalizzata sull'agricoltura, in particolare sulla coltivazione degli ulivi e sulla produzione di formaggi legati al pascolo. Molti boschi sono stati abbattuti dalla popolazione locale per ricavare legna da ardere e per fare spazio a un'agricoltura più intensiva.

Alla fine dell'Ottocento, però, si potevano ancora vedere ampie tracce dell'antica foresta e del bellissimo bosco di Belvedere nel centro del Salento, al punto che alcuni paesi, come Nociglia e Supersano, erano specializzati nella produzione di carbone vegetale. I resti di questa antica distesa verde, sono oggi nascosti all'interno di alte mura di proprietà privata. Nel tempo, la varietà di piante e animali nell'area è diminuita ulteriormente a causa di incendi ripetuti e dell'erosione dei terreni privi di copertura vegetale. Questo ha portato alla diffusione della gariga, un tipo di vegetazione considerata molto più povera e degradata rispetto alla foresta di lecci originaria, la quale rappresenta comunque un discreto indicatore della salute ambientale, poiché mostra che, in anni favorevoli e senza fattori stressanti, potrebbe essere possibile recuperare le piante originali. Questo processo potrebbe portare a un passaggio dalle piante più semplici a quelle più complesse della macchia mediterranea, fino a raggiungere la foresta di leccio, che rappresenta lo stato finale di questo ecosistema. Purtroppo però, ancora oggi il bosco subisce un po' di degrado a causa del diradamento eccessivo del sottobosco (cioè il taglio di piante e cespugli), fatto per facilitare la caccia.

Il suolo è costituito da calcarenite pleistocenica e il clima è particolarmente caldo e secco, ma nonostante queste condizioni difficili, la vegetazione del Bosco di Cervalora ha dimostrato una grande capacità di adattamento nel tempo, preservando oltre alle specie come il leccio, anche altre querce, tra cui la roverella e la virgiliana che perdono le foglie più tardi nell'anno, e in particolari condizioni, l'olmo campestre. Immerso in un contesto agricolo, il paesaggio è caratterizzato da un sottobosco denso e vario. Questa fitta vegetazione, tipica della macchia mediterranea, ospita numerose specie che hanno sviluppato straordinarie capacità di adattamento all'ambiente ostile. Per sopravvivere in queste condizioni, le piante hanno messo in atto diverse strategie e infatti il ​​pungitopo si difende con spina dorsale, il lentisco produce resina, mentre mirto e lentisco hanno foglie coriacee per ridurre la traspirazione. Ginestra e ginestrella, invece, attirano gli insetti impollinatori con i loro fiori gialli. Nonostante le differenze, tutte queste specie presentano adattamenti xerofitici, come radici profonde e portamento cespuglioso, che permettono loro di sopravvivere alla siccità. Tra le specie di particolare interesse, troviamo la Stipa austroitalica, che cresce solo in alcune aree.

Queste piante, insieme ad altre specie arbustive ed erbacee, creano un microclima favorevole e offrono cibo e riparo a moltissimi animali. Tra i rettilinei, oltre al colubro leopardino e al cervone, possiamo trovare lucertole, biacchi e rospi smeraldini, e in alcune zone, la testuggine palustre. Essi sfruttano le fessure tra le rocce, i tronchi e la vegetazione per termoregolarsi e cacciare insetti. L'avifauna è estremamente ricca e diversificata: oltre ai passeriformi come il pettirosso, vi sono molte altre specie che nidificano tra i rami degli arbusti o nelle cavità degli alberi, come i colorati cardellini ei fringuelli. Piccoli mammiferi come il riccio trovano cibo e rifugio in questo ambiente, ma anche specie più grandi come la volpe e il tasso possono occasionalmente avventurarsi in queste zone, soprattutto di notte. Non dimentichiamo i pipistrelli, che utilizzano gli alberi come nascondiglio e le api, le farfalle, i coleotteri e molti altri insetti che svolgono un ruolo fondamentale nell'impollinazione delle piante e nelle catene alimentari.

Grazie alle Direttive europee, abbiamo un quadro abbastanza chiaro delle specie presenti e della loro importanza per l'ecosistema. Inoltre, molte di queste specie sono protette perché svolgono un ruolo chiave nell'equilibrio dell'ecosistema o perché sono a rischio di estinzione. Il Bosco di Cervalora è riconosciuto come Sito d'Importanza Comunitaria (SIC) per il suo valore naturale ed è inserito nella rete Natura 2000, che comprende zone di protezione speciale e aree di conservazione importanti per l'Unione Europea. La gestione del sito è affidata alla Regione Puglia, che ha predisposto un piano specifico per la sua tutela e conservazione. La trasformazione del paesaggio è un processo complesso e dinamico, influenzato da fattori naturali e antropici. Il Bosco di Cervalora ci mostra come l'azione dell'uomo possa avere effetti a lungo termine sull'ambiente. È necessario adottare un approccio multidisciplinare e integrato per comprendere appieno questi processi e per mettere in atto strategie di gestione sostenibile del territorio.

Sulle terre arse, la Scilla fiorisce

Chi vive a Frigole o frequenta le campagne circostanti conosce bene le lande aride e sassose che, durante l'estate, sembrano perdere ogni segno di vita, specialmente dopo i devastanti incendi che sono sempre più frequenti. Ma c'è una pianta che, contro ogni aspettativa, non solo sopravvive, ma si erge fiera e rigogliosa tra le macerie carbonizzate: la Scilla marittima, una pianta che riesce a fiorire anche nelle condizioni più avverse, richiamando l'attenzione di chiunque passi da quelle parti.

Fiorisce tra agosto e settembre, proprio quando l'estate sta per finire e le prime piogge autunnali iniziano a bagnare la terra secca. È in quel momento che vediamo innalzarsi i suoi scapi fiorali, lunghi e dritti, come candele che possono arrivare fino a due metri di altezza. I fiori sono piccoli, bianchi e raggruppati in grappoli che si sviluppano progressivamente, dal basso verso l'alto, regalando uno spettacolo unico a chi osserva il paesaggio. Le foglie, che emergono solo dopo la fioritura, formano una rosetta basale verde e spessa, che dura fino all'inizio dell'anno successivo.

Con il ritorno della stagione arida, le foglie seccano, completando il ciclo vitale della pianta, che si prepara così a resistere alle condizioni più avverse. Come anticipato, una delle caratteristiche più sorprendenti della Scilla marittima è, infatti, la sua capacità di sopravvivere al passaggio del fuoco. Durante gli incendi estivi, il calore può bruciare le foglie secche e persino la parte più esterna dei suoi grossi bulbi, ma la pianta non viene intaccata nella sua vitalità.

Il nome Scilla evoca la tragica figura della ninfa trasformata in un mostro marino. Innamoratasi di Glauco, Scilla chiese alla maga Circe un filtro d'amore, ma la rivale, gelosa, le sommenistrò un veleno che la mutò in una creatura orribile, con sei teste di canna e un corpo metà donna e metà pesce. Condannata a vivere nelle caverne marine, Scilla divenne un pericolo per i naviganti, divorando chiunque osasse avvicinarsi.

Come la Scilla mitologica, anche la pianta nasconde diversi aspetti pericolosi: i suoi bulbi sono velenosi tanto che, in passato, venivano usati per la pesca di frodo nei torrenti per le loro proprietà ittitossiche. Inoltre, il contatto con i suoi bulbi può provocare irritazioni alla pelle e agli occhi a causa della presenza di ossalato di calcio. Usata in dosi controllate, la pianta ha proprietà medicinali. Nell'antichità, il bulbo di Scilla era molto apprezzato per le sue proprietà cardiotoniche e diuretiche, tanto che veniva impiegato per trattare scompensi cardiaci, asma e idropsia. Plinio il Vecchio e Teofrasto ricordano l'uso della Scilla nelle cerimonie espiatorie e per allontanare i sortilegi. Nella tradizione popolare, soprattutto in Sardegna, il bulbo della Scilla veniva utilizzato come amuleto contro i malefici, appeso sopra le porte delle case. In altre culture, veniva piantato sulle tombe per proteggere i defunti e si credeva che avesse poteri per guarire la follia.

Ed è proprio questa dualità tra bellezza e pericolosità che ha affascinato poeti come Louise Glück, che nella sua opera 'Iris selvatica' le attribuisce una voce profonda e riflessiva. In particolare, la poetessa attribuisce alla pianta una voce propria, invitandoci a riflettere sulla nostra condizione di esseri umani e sul nostro rapporto con il mondo naturale. La Scilla, con la sua umiltà e la sua forza, ci ricorda che anche le creature più piccole possono insegnare molto sulle grandi domande dell'esistenza. Come scrive Glück: 'Non io, idiota, non il sé, ma noi, noi: onde di blu-cielo come una critica del paradiso'. La pianta, con le sue radici affondate nella terra ei suoi fiori rivolti al cielo, ci invita a 'essere pressoché nulla', a riconoscere la nostra piccolezza di fronte alla vastità della natura. Eppure, proprio in questa apparente insignificanza, troviamo una grande forza e una profonda bellezza.

La forchia te la milogna

Un pugnale di osso, denti e ossa di animali, punte di lancia, asce e frecce. Furono ritrovati nel 1995 in una grotta preistorica nei pressi di Frigole, località Sao, esplorata dal gruppo speleologico 'Ndronico su mandato del giudice Valeria Mignone. La grotta era già conosciuta da tempo dai contadini del luogo, che la chiamavano “Forchia te la Milogna” ovvero Fossa del Tasso. Molto probabilmente ci sarà stato altro, ma la grotta era già stata spogliata da visite precedenti. L'Ecomuseo delle Bonifiche di Frigole ha intervistato sul posto alcuni anni fa i proprietari del terreno in cui si trova, scoprendo altri particolari.