Alla scoperta del giunco: una pianta dalle mille risorse

Nel bacino costiero di Acquatina, a Frigole, cresce abbondante il Juncus acutus, noto come giunco ​​spinoso, pianta perenne tipica degli ambienti umidi e salmastri. L'etimologia del suo nome richiama l'idea di legame e punta, riflettendo le sue caratteristiche morfologiche. Sebbene in botanica il termine “giunco” indichi solo le specie del genere Juncus, nel linguaggio comune includono varie erbe palustri con fusti rigidi, utilizzate da secoli nell'artigianato locale per creare stuoie, cesti, corde e utensili impiegati in ambito agricolo, domestico e artigianale.

Il giunco ​​è una pianta erbacea perenne che può raggiungere un'altezza di circa 120 cm e cresce formando cespugli fitti e compatti, larghi fino a un metro e mezzo, difficili da attraversare. I suoi fusti, rigidi e cilindrici, sono di colore verde scuro e terminano con una punta. Le foglie, molto simili ai fusti sia per forma che per consistenza, sono dritte, appuntite, lunghe tra i 30 ei 50 cm, e avvolte alla base da guaine brevi, scure e lucide. I fiori, di piccole dimensioni e tonalità bruno-rossiccia, sono riuniti in un'infiorescenza globosa chiamata antele, che si origina da una brattea scura e appuntita, simile a una barchetta. Ogni fiore è composto da due serie di tepali e da stami con antere rossastre e ben evidenti. Il frutto è una capsula ovale, appuntita, che racchiude tre semi bruno-rossastri di forma fusiforme e dotati di endosperma. I fusti rappresentano la parte più utilizzata della pianta, in quanto adatti alla realizzazione di stuoie, cesti e altri oggetti intrecciati; vengono raccolti quando i frutti sono maturi, tra settembre e ottobre, momento in cui risultano più duri e resistenti, ma in base all'uso desiderato possono essere prelevati anche in fasi precedenti per ottenere maggiore flessibilità.

Oltre all'intreccio, in passato i fusti appuntiti venivano usati per tenere lontani gli uccelli dai vigneti o per infilzare pesci, funghi e altri prodotti venduti poi in mazzi chiamati serti.

Al giunco ​​sono state attribuite nel tempo anche proprietà magiche e curative: in alcune zone della Sardegna, ad esempio, è stato impiegato in riti scaramantici per proteggere i bambini, curare malattie o far scomparire i porri, attraverso gesti simbolici come saltare sopra un fusto, annodarlo e gettarlo in acqua, con l'obbligo di non tornare mai più nel luogo del rito.

In passato, le zone umide del Salento offrivano questa risorsa in abbondanza per l'artigianato locale, in particolare per la produzione di oggetti intrecciati a mano. Intorno a questa pratica si sviluppò una vera e propria filiera, in cui ogni fase richiedeva competenze specifiche. I primi a entrare in azione erano i raccoglitori, capaci nel riconoscere e selezionare le piante più adatte all'intreccio. Il materiale veniva poi ordinatamente legato in fascine e affidato ai trasportatori, che lo spostavano con carri fino ai luoghi di lavorazione. Una volta giunta a destinazione, le fibre vengono trattate per prepararle alla tessitura: lavate, essiccate e sbiancate, passavano di mano in mano fino agli artigiani, che con maestria le trasformavano in oggetti di uso quotidiano o decorativo.

Anche se la fase finale dell'intreccio era spesso affidata alle donne — giovani e anziane — il ruolo degli uomini restava centrale, soprattutto nei momenti iniziali del processo. All'alba o durante le ore più fresche della notte, raggiungevano le paludi a piedi, in bicicletta o con piccoli carretti per raccogliere il giunco. Rientravano a casa solo dopo lunghe ore di lavoro sotto il sole cocente. Una volta raccolto, il giunto doveva essere sottoposto a diverse lavorazioni per diventare più duttile. I passaggi principali comprendevano la bollitura, l'essiccazione (che durava circa due settimane, durante le quali il materiale acquisiva una tonalità gialla) e infine la zolfatura. Quest'ultima consisteva nell'appendere i giunchi umidi in ambienti chiusi, saturi dei vapori sprigionati dallo zolfo riscaldato in pentole: un trattamento che rendeva il materiale ancora più morbido e pronto per essere intrecciato. A quel punto intervenivano le mani esperte delle donne, sedute a terra su sacchi di iuta o coperte, che trascorrevano ore a intrecciare con straordinaria perizia. Ogni fase dell'intreccio — dalla base ai fianchi fino al bordo — richiedeva tecniche specifiche. Tra i prodotti più comuni che hanno preso forma da questo processo ricordiamo le sporte, le fiscelle ei panari: oggetti semplici, ma carichi di storia, fatica e sapienza artigiana.

A seconda del luogo, gli artigiani si specializzavano in produzioni specifiche: ad Acquarica, ad esempio, si realizzavano soprattutto "spurteddhe" (cesti), "cannizzi" (graticci), nasse da pesca, fischi e accessori per frantoi; a Bagnolo del Salento, invece, la produzione si concentrava su cordame, filati e oggetti per l'agricoltura e la pesca.

Oggi, la crisi dell'artigianato legato alla produzione del giunco ​​ha avuto gravi conseguenze sia economiche che ambientali, portando all'abbandono di zone umide di alto valore ecologico come il SIC Acquatina di Frigole. La perdita di questa tradizione ha comportato la scomparsa di un'intera filiera produttiva e di un patrimonio culturale unico.

Curiosamente, gli artigiani dell'intreccio svolgevano un ruolo importante nella gestione delle zone umide. Per poter raccogliere il materiale, essi pagavano un compenso ai proprietari dei terreni in cui si trovavano le paludi, contribuendo a mantenere l'equilibrio tra le diverse specie vegetali.